Certe volte la realtà supera la fantascienza. E altre volte, la supera, la investe, e poi fa retromarcia. Prendete Jerome Dewald, 74 anni, imprenditore seriale e visionario dell’intelligenza artificiale, che ha pensato bene di mandare Jim, un avatar AI “grande, bello e maschio alfa”, a rappresentarlo in tribunale durante un’udienza. Sì, avete letto bene. Un avatar generato da una piattaforma chiamata Tavus, usato per tenere un’arringa legale in un’aula della Corte Suprema dello Stato di New York.

Ora, si potrebbe anche apprezzare l’intento se fosse stato chiaro. Ma Dewald non ha avuto la brillante idea di informare preventivamente la corte che l’uomo in video, con voce baritonale e mascella scolpita, non era un avvocato in carne e ossa, né tanto meno lui. Il dettaglio, a quanto pare, era secondario. Peccato che la giudice Sallie Manzanet-Daniels non abbia esattamente gradito la sorpresa, interrompendo il video dopo la prima frase pronunciata da Jim e chiedendo se quella fosse la parte legale del caso.

“Ho generato io quello”, ha risposto candidamente Dewald. “Non è una persona reale”. Boom.

A quel punto, l’aula si è trasformata in una scena tra il grottesco e l’assurdo. La giudice, visibilmente contrariata, ha fatto notare che sarebbe stato carino sapere che non stavano ascoltando un essere umano, e ha ricordato a Dewald che un’aula di tribunale non è esattamente il palco ideale per fare beta testing di pitch aziendali. “Non userà questa corte come trampolino per la sua azienda”, ha tuonato.

Dewald, che soffre di problemi nel parlare per lunghi periodi, aveva ricevuto il permesso di inviare una videoregistrazione al posto di un intervento orale. Ma ha pensato bene di sfruttare quell’autorizzazione come un varco spazio-temporale per far entrare la sua start-up nel processo legale. Una mossa più da pitch per investitori della Silicon Valley che da procedura giudiziaria.

Il tutto si inserisce in una galleria degli orrori sempre più nutrita di esperimenti AI nel settore legale. Memorabile il caso del 2023, quando due avvocati e uno studio legale sono stati sanzionati per aver presentato documenti contenenti precedenti legali completamente inventati da ChatGPT. Oppure la brillante trovata di DoNotPay, il famigerato “robot lawyer” che ha dovuto pagare 193.000 dollari alla FTC per aver mentito pubblicamente sul fatto che la sua IA fosse buona quanto un avvocato umano. Certo. E probabilmente anche più simpatica, se non altro.

Nel teatrino surreale in cui l’IA viene messa a far finta di sapere cosa fa, il caso Dewald è solo l’ultima perla. Ma qui la cosa è ancora più interessante: non è stato un errore tecnico, non è stato un allucinazione di ChatGPT, né un bug. È stato intenzionale. Il che ci riporta al punto: se la legge deve essere cieca, dev’essere almeno informata su chi sta parlando. Anche se ha una mascella perfetta e non ha mai preso un caffè in vita sua.

Il sogno di “democratizzare l’accesso alla giustizia” attraverso l’intelligenza artificiale è ormai diventato il nuovo Eldorado delle startup. Ma come ogni sogno americano che si rispetti, spesso finisce male, davanti a una giudice stanca, un’aula vera e un’IA che non sa nemmeno cosa significhi il quinto emendamento.

Forse la prossima volta Dewald ci penserà due volte prima di inviare Jim in aula. O magari no. Magari manderà direttamente un deepfake di Atticus Finch, tanto ormai il confine tra legaltech e Netflix sembra già bello che sparito.