TSMC, il colosso taiwanese della produzione di semiconduttori che tiene letteralmente in pugno la supply chain globale dell’innovazione, potrebbe dover sborsare oltre un miliardo di dollari per risolvere una scomoda indagine statunitense sul controllo delle esportazioni. Il motivo? Un chip fabbricato su commessa di Sophgo, società cinese apparentemente innocua, che però sarebbe finito nel cuore pulsante dell’Ascend 910B, l’ambizioso processore AI di Huawei, attualmente il simbolo della corsa cinese all’autosufficienza tecnologica.
Il Dipartimento del Commercio americano, che ormai fa più il lavoro dell’NSA che della burocrazia industriale, sta scavando nella vicenda da mesi. Secondo fonti riservate, tutto parte da una progettazione firmata Sophgo, trasformata da TSMC in circa tre milioni di chip. Peccato che il risultato finale, identico nei minimi dettagli, sia stato rinvenuto nel cuore della 910B, proprio quel chip made-in-Huawei che doveva essere impossibile da realizzare senza violare le sanzioni USA. Un déjà vu che ha fatto suonare più di un campanello d’allarme a Washington.
Ora, va ricordato che Huawei è sulla Entity List americana dal 2019. Non può ricevere nulla che contenga tecnologia USA. E il nodo è qui: anche se TSMC è fisicamente a Taiwan, il suo impianto produttivo è impregnato di tecnologia americana. Di conseguenza, qualsiasi chip sfornato dalle sue fabbriche cade sotto le sante regole dell’export control a stelle e strisce. Se poi questi chip finiscono in un prodotto Huawei, è come se la fabbrica di Hsinchu fosse improvvisamente diventata un’estensione illegale del Texas.
Il rischio per TSMC non è solo d’immagine. Secondo la legge, la multa può arrivare al doppio del valore delle transazioni incriminate. E con volumi di milioni di chip, si arriva rapidamente alla soglia del miliardo. Come dire: “bentornati nel capitalismo geopolitico, dove la sanzione è la nuova valuta globale”.
Lennart Heim, analista del RAND, ha dichiarato che TSMC avrebbe dovuto riconoscere il rischio evidente che un design cinese per applicazioni AI potesse finire nelle mani sbagliate. Ma quando hai un portafoglio clienti pieno e la Cina bussa con dollari veri, l’ingenuità tecnica si confonde con la cecità commerciale.
TSMC, da parte sua, giura di non aver più fornito nulla a Huawei dal settembre 2020. Ma la realtà è più opaca: nel novembre scorso, a seguito di un’analisi di TechInsights che ha smontato pezzo per pezzo l’Ascend 910B, TSMC ha improvvisamente sospeso le spedizioni a Sophgo. Un tempismo che sa tanto di “colto con le mani nella wafer room”.
Nel frattempo, le borse hanno reagito in modo chirurgico: il titolo TSMC, quotato anche a New York, ha cancellato un guadagno del 3% per chiudere in leggero calo. Nulla di drammatico, ma abbastanza per far capire che gli investitori annusano lo scontro imminente tra Washington e Taipei.
La cosa assume tinte ancora più acide se si guarda al contesto politico. Proprio mentre TSMC stava promuovendo con fanfara un piano d’investimenti da 100 miliardi di dollari negli USA, e mentre Trump minacciava nuove tariffe sull’import taiwanese (chip esclusi, per ora), ecco che spunta questo caso spinoso. Una tempesta perfetta dove la tecnologia si fonde con la diplomazia, la geopolitica e una buona dose di paranoia da guerra fredda digitale.
Howard Lutnick, Segretario al Commercio USA, è stato chiaro: l’amministrazione Biden-Trump intende fare sul serio con le sanzioni. “Abbiamo finito di tollerare chi si arricchisce aiutando chi vuole distruggere il nostro stile di vita”, ha detto senza mezze misure. Il che tradotto significa: o state con noi o siete contro di noi. E a Taiwan, dove TSMC è quasi religione nazionale, iniziano a capire che la neutralità non è più un’opzione.
Il precedente non aiuta: nel 2023, Seagate pagò 300 milioni di dollari per aver venduto a Huawei dischi rigidi per oltre un miliardo. Ma questa volta l’importo potrebbe quadruplicare. Perché qui si parla di chip avanzati, intelligenza artificiale e la madre di tutte le guerre tecnologiche.
Nel frattempo, Huawei osserva in silenzio, mentre il suo chip 910B si conferma l’unico prodotto AI di fascia alta realizzato su suolo cinese. Una minaccia concreta per Nvidia e soci, ma anche un fastidioso promemoria per gli americani: nonostante l’embargo, il dragone continua a masticare silicio.
La partita resta aperta. Nessuna sanzione ufficiale è ancora stata annunciata contro TSMC, ma il cosiddetto “proposed charging letter” è la classica quiete prima della tempesta. Un documento che segnerebbe l’inizio formale della causa, con 30 giorni per rispondere. Tic tac.
Chi vivrà vedrà. O forse no, perché in questa nuova guerra tecnologica chi sbaglia paga, anche se stampa i chip più avanzati del pianeta.