Quando la politica fiscale diventa un’arma commerciale e l’e-commerce si trasforma in carne da macello doganale, non serve un veggente per capire che il vento è cambiato. TikTok Shop, la gallina dalle uova d’oro del retail made in China travestita da social entertainment, ha iniziato a lanciare allarmi ai suoi venditori cinesi: addio all’esenzione doganale, benvenuto inferno tariffario.

Con l’arrivo di maggio, il “de minimis” – quella magica soglia sotto gli 800 dollari che permetteva l’ingresso in USA di pacchi duty-free – sarà archiviato come un bel sogno ad occhi aperti. E come ogni sogno infranto in mano a un ex-presidente con la nostalgia da candidato, arriva la stangata: da 30% a 90% di dazio sul valore dei pacchi. Una tassa camuffata da protezionismo patriottico, che però, come sempre, finisce per colpire il consumatore finale… e l’algoritmo del prezzo più basso.

ByteDance, genitore cinico e pragmatico della piattaforma, ha subito smesso di sorridere e ha girato il volante verso l’Europa. La nuova frontiera dell’e-commerce cinese low-cost è ora il vecchio continente, con TikTok Shop che spinge come un broker disperato su Spagna, Germania, Italia e Francia. Il messaggio è chiaro: “Hai un negozio su Amazon o eBay? Lascia perdere l’America, vieni a vendere da noi in Europa, che tanto tra un po’ toccherà pure a voi.”

La mossa è più che sensata. I numeri parlano da soli: nel 2024, 1,36 miliardi di pacchi sono entrati negli Stati Uniti sotto la protezione del de minimis, e il 60% arrivava dalla Cina. Un flusso che ha mandato in tilt la logistica americana e i produttori locali, mentre Shein, Temu e TikTok ridevano in faccia alla competizione con i loro prezzi tagliagola.

Ma ora l’America ha deciso di mettere il guinzaglio. E i colossi cinesi del click & buy stanno iniziando a perdere sangue. Shein ha visto le sue vendite americane calare fino al 41% in una sola settimana di febbraio, mentre Temu ha registrato una flessione del 32%. Numeri che non ammettono interpretazioni: la festa è finita, la sbornia passa e il conto lo pagano i merchant.

Molti venditori su Amazon sono nel panico. “Margini già risicati, pubblicità costosa, adesso pure le tasse. Così non si va avanti”, ha detto un merchant con il classico cognome da romanzo di finanza cinese: Wu. E ha ragione. Perché il paradosso è che questi colossi, nati per fare economia di scala, stanno per entrare in un mercato dove la scala diventa una zavorra.

Temu, per esempio, ha già cominciato a deviare il traffico. Niente più valanghe di pacchi direttamente dalla Cina: si investe in magazzini locali e in un “modello a mezzo custodia”, che suona un po’ come una soluzione fiscale creativa in salsa logistica. Shein, dal canto suo, arranca.

Il colpo di grazia arriva dalle statistiche doganali cinesi: esportazioni in calo tra il 7% e il 22% nei primi due mesi del 2025 in tutti i settori chiave dell’e-commerce transfrontaliero – abbigliamento, mobili, giocattoli, scarpe, valigie, lampade. Una disfatta in piena regola, per un settore che sembrava inarrestabile.

Dietro la facciata delle politiche commerciali, c’è una guerra fredda fatta di click, container e dazi. E il messaggio di TikTok Shop ai suoi venditori è il classico SOS del mondo globalizzato: cambiate rotta, finché siete in tempo. Perché l’America non è più il mercato dei miracoli. E questa volta, la disruption ha perso il passaporto.

Secondo Dan Ives, analista di Wedbush Securities, queste politiche rischiano di riportare il settore indietro di un decennio. ​

Immaginate un iPhone prodotto negli Stati Uniti al modico prezzo di 3.500 dollari. Non è fantascienza, ma una delle possibili conseguenze delle tariffe del 104% imposte sui prodotti cinesi. Apple, che attualmente produce il 90% dei suoi iPhone in Cina, si troverebbe a fronteggiare costi proibitivi se decidesse di riportare la produzione in patria.

Ma non è solo Apple a tremare. Giganti come Nvidia, Microsoft e AMD, che dipendono fortemente da componenti asiatiche, vedrebbero le loro catene di approvvigionamento sconvolte. Ives avverte che queste tariffe potrebbero causare un “uragano di prezzi di categoria 5” per i consumatori americani, con aumenti del 40-50% sui prodotti elettronici.

L’idea di riportare la produzione negli Stati Uniti potrebbe sembrare patriottica, ma è anche incredibilmente ingenua. Costruire infrastrutture manifatturiere richiede anni e investimenti colossali. Nel frattempo, la Cina potrebbe approfittare della situazione per avanzare nel settore tecnologico, lasciando gli Stati Uniti a leccarsi le ferite. ​

Inoltre, queste tariffe potrebbero rallentare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Molti componenti essenziali per i data center provengono dall’estero e sarebbero soggetti a tariffe, aumentando i costi e potenzialmente spingendo le aziende a spostare lo sviluppo all’estero. ​