Il mago di Oz è morto, lunga vita al Mago di Oz. In un’epoca in cui l’intelligenza artificiale non solo restaura ma reinventa, Google, DeepMind e Magnopus hanno deciso di prendere uno dei film più iconici della storia del cinema e… hackerarlo con classe. L’obiettivo? Trasformarlo in un’esperienza immersiva degna del più lisergico dei viaggiatori del 1939, proiettata su un colossale schermo semi-sferico di 160.000 piedi quadrati nella Sphere di Las Vegas. Per chi ancora crede che l’arte non debba essere toccata, sedetevi comodi: qui siamo ben oltre il restauro digitale. Qui siamo nella resurrezione aumentata.

Per capire la portata del progetto, bisogna considerare le cifre: lo schermo della Sphere ha una risoluzione di 16.000 x 16.000 pixel. Per chi ha perso il conto, sono 256 milioni di pixel da saziare. L’originale pellicola in Technicolor del 1939, onestamente, non era attrezzata per affrontare un simile trattamento. Ed è qui che entrano in campo Gemini, Veo 2 e Imagen 3: modelli AI “fine-tuned”, come direbbero quelli col badge di Google Cloud, programmati non solo per upscalare, ma per riempire, completare, reinventare.

Non si parla di un semplice aumento di risoluzione. Si parla di manipolazione narrativa. Scene originariamente frammentate da limiti tecnici ora mostrano contemporaneamente tutti i personaggi in campo. Un esempio emblematico: nella scena in cui Dorothy parla con zia Em e Miss Gulch, nel film originale si intuiva la presenza di zio Henry fuori campo. Ora, nella versione AI, è lì, in carne, pixel e nostalgia. La casa si apre, i dettagli si moltiplicano, lo spettatore non guarda più: è dentro.

Il trucco però non si limita a qualche clic su Midjourney o DALL·E. Google ha scavato nei sotterranei di Warner Bros., rispolverando fotografie di scena, storyboard, script originali e planimetrie dei set. Tutto questo materiale è stato alimentato nei modelli AI per una ricostruzione fedele, quasi filologica, ma sempre con quel guizzo da Frankenstein digitale che fa la differenza tra un restauro e un reboot con superpoteri.

E, come se non bastasse, Sphere promette una stimolazione sensoriale completa: odori, vento, calore. Non si sa ancora se ci sarà odore di stalla nel Kansas o aroma di papaveri nella terra di Oz, ma la promessa è quella di un coinvolgimento multi-sensoriale. Il che, detto con un certo cinismo da CTO, suona come “non abbiamo più limiti tecnici, quindi li stiamo costruendo noi da zero”.

“L’AI ha toccato oltre il 90% del film,” dice Ravi Rajamani, capo ingegneria generativa di Google Cloud. Che, tradotto, significa che questo non è più Il mago di Oz come lo conoscevamo. È una versione potenziata, filtrata e reinterpretata attraverso milioni di nodi neurali. E, per essere chiari: non è più un film, è un mondo.

Dietro la scenografia titanica c’è anche James Dolan, lo zar dell’intrattenimento immersivo, che promette “effetti ancora sotto embargo”. Per ora sappiamo solo che la prima mondiale è prevista per il 28 agosto 2025, un appuntamento che, se non altro, farà apparire le solite premiere su tapis rouge come banali aperitivi da centro commerciale.

Quindi sì, quanti ci sarebbe piaciuto esserci. Perché quando una vecchia favola incontra un colosso algoritmico, nasce qualcosa che non è più cinema, ma realtà parallela. Non resta che preparare i sensi e il cervello per l’atterraggio nel nuovo Oz. Dove non servono più le scarpette rosse, basta un visore, qualche miliardo di parametri e un po’ di sana nostalgia manipolata.

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