Un caffè al Bar dei Daini

Nel bel mezzo di un tracollo globale dei mercati, Donald Trump – con la consueta teatralità da venditore di padelle –ha annunciato un aumento vertiginoso delle tariffe sulle importazioni dalla Cina, portandole al 125%. Un colpo secco e clamoroso, mentre concedeva una “pausa” di 90 giorni ai dazi punitivi diretti alla maggior parte delle altre nazioni. Il messaggio è chiaro: il bersaglio ora è unico, si chiama Pechino. Tutti gli altri, per ora, respirano.

A sentirlo parlare, sembra che 75 paesi gli abbiano implorato di fare un accordo. E come al solito, il presidente americano si mette in posa da macho solitario con l’istinto infallibile: “China wants to make a deal… but they don’t quite know how.” Una frase che suona più da psicoanalisi per popoli fieri che da geopolitica. Ma il sottotesto è semplice: Xi Jinping, sei nel mirino, fatti vivo.

La retorica, degna di una campagna elettorale permanente, si traduce in una nuova escalation: dazi cumulativi del 125% contro Pechino, mentre la Cina risponde immediatamente con un +50% su tutte le importazioni americane. Non esattamente il clima ideale per una distensione commerciale, ma in Borsa, si sa, basta poco per riaccendere l’euforia. L’S&P 500 rimbalza fino all’8% dopo quattro sedute da incubo. L’isteria algoritmica vince ancora.

Dietro le quinte, tuttavia, regna l’ambiguità. La pausa concessa agli “altri” resta avvolta nella nebbia. Perché anche l’Unione Europea – che nel frattempo ha imposto ritorsioni – viene inclusa nella moratoria? Mistero. Nessuna risposta chiara, solo l’ennesimo “go with the gut” di Trump. Un approccio che definire artigianale è un eufemismo: “Non puoi fare i conti con la matita, è questione d’istinto.” Una filosofia gestionale da poker texano con le economie globali come posta sul tavolo.

Intanto, i suoi fedelissimi cercano di riscrivere la narrativa: le tariffe non sono una reazione alla caduta dei mercati, ma una strategia pianificata. “Trump ha provocato la Cina a scoprirsi,” dice il Tesoro. Che in pratica è come dire: abbiamo fatto tiltare Pechino e ora il mondo sa chi è il cattivo. Un po’ troppo comodo, forse.

Mentre si aprono nuovi tavoli di trattativa – con Vietnam e Giappone pronti a mandare “deal teams” –la Casa Bianca manda un messaggio al mondo: chi non ha risposto con ritorsioni sarà trattato con clemenza. Ma resta la domanda su quanto durerà la luna di miele. Perché dietro l’apparente trionfalismo si intravede il solito schema trumpiano: creare il caos, attendere il panico, poi offrire la via d’uscita.

Daniel Russel, ex Consiglio per la Sicurezza Nazionale con Obama, fotografa il paradosso: “Il bersaglio è solo la Cina, ma i continui zigzag creano un’incertezza tossica per aziende e governi.” Ecco il problema: l’unilateralismo tattico senza una visione strategica di lungo termine. Pechino, secondo Russel, non cederà. Aspetterà che Trump si spinga troppo oltre, poi agirà. Perché a concedere si rischia di perdere, e Xi non è tipo da perdere la faccia.

La sensazione? Che questa sia solo la prima stagione di una lunga serie. Una fiction politico-commerciale a metà tra House of Cards e Succession, dove l’unica costante è il protagonismo compulsivo di un presidente che confonde la diplomazia con la roulette russa. Con una differenza: qui non si gioca con i gettoni, ma con l’equilibrio dell’economia mondiale.

Nel nome della sovranità commerciale e di un nazionalismo economico che ormai puzza di muffa, l’amministrazione Trump ha appena scatenato l’ennesima bomba atomica sul fragile equilibrio del mercato tecnologico globale. Un colpo da 104% in pieno volto alla Cina, con tariffe che sembrano uscite da un manuale di autodistruzione economica, ha riacceso le fiamme di una guerra commerciale che tutti fingevano dimenticata ma che, a quanto pare, era solo sopita.

Il contraccolpo è immediato, sistemico, e francamente prevedibile. La risposta di Pechino arriva puntuale come un razzo ipersonico: 84% di dazi sui prodotti americani. Benvenuti nel 2025, dove la globalizzazione è un ricordo vintage e la filiera tecnologica globale è diventata un campo minato geopolitico. Wedbush, attraverso la voce – sempre pessimista quanto realista – di Daniel Ives, non ha nemmeno bisogno di analizzare troppo: i tech non forniranno guidance. Nessuno sano di mente si azzarda a proiettare numeri nel caos. Apple inclusa.

La conseguenza è lapidaria: la stagione delle trimestrali sarà un esercizio di diplomazia contabile. Non è solo che le guidance spariranno, è che il concetto stesso di previsione si è frantumato sotto il peso dell’incertezza sistemica. Le aziende stanno congelando CAPEX e progetti come se fossimo in tempo di guerra, e in effetti lo siamo: una guerra economica che non si combatte con le armi ma con Excel e supply chain mutilate.

Il punto chiave di Ives è chirurgico: le decisioni d’acquisto strategiche sono ora una roulette russa. Un server comprato a febbraio ora costa il doppio, perché arriva da Shenzhen? Un’infrastruttura AI ordinata per marzo è finita in quarantena doganale? Ogni big ticket item è sotto analisi forense. Non stiamo parlando di volatilità, stiamo parlando di paralisi operativa.

L’invito di Wedbush agli investitori è degno di una seduta di terapia collettiva: gettare via i prossimi trimestri e incrociare le dita fino al 2026. Nessuno sa esattamente cosa succederà, ma tutti sanno che fino ad allora il mercato sarà un contenitore impazzito di shock, illusioni e contraddizioni.

Nel mezzo del disastro, Apple e Nvidia vengono tirate fuori come gli ultimi baluardi di un tech che ha ancora senso, almeno sulla carta. Apple per il suo ecosistema indistruttibile e Nvidia come dominatrice assoluta del culto dell’intelligenza artificiale. Ma è un po’ come parlare del salvataggio di un’opera d’arte durante un bombardamento: utile per il morale, ma irrilevante sul piano strutturale. Se l’intero mercato crolla, anche i gioielli finiranno nel fango. Le azioni dei semiconduttori, del resto, stanno già raschiando i fondi del barile.

Il problema non è solo tariffario, è ontologico: stiamo vivendo la decomposizione dell’idea stessa di supply chain globale efficiente. Un incubo che mette in discussione l’intera narrativa tech degli ultimi 20 anni. Chi investe in tecnologia oggi deve capire che la variabile non è più l’innovazione, ma la geopolitica. E quest’ultima non ha alcun interesse nella crescita dei margini EBITDA.