Quando una ex dirigente di Meta si presenta davanti al Congresso con un’accusa in piena regola di alto tradimento tecnologico, il rumore di fondo non è solo quello dei flash dei fotografi. È il suono di un impero digitale che scricchiola sotto il peso di ciò che ha sempre negato: una complicità sistemica con il Partito Comunista Cinese, mascherata da espansionismo strategico globale.
Sarah Wynn-Williams, ex direttrice delle politiche pubbliche globali di Meta, è pronta a spalancare le porte dell’inferno aziendale con una testimonianza che sa di spy story siliconvalleyana, ma che si gioca nella realtà: accuse dirette, documenti, progetti segreti e un cavo sottomarino degno di un romanzo cyberpunk, tutto finalizzato – a suo dire – a conquistare il mercato cinese degli inserzionisti, da 18 miliardi di dollari.
Secondo la sua deposizione preparata per la Sottocommissione su Crimine e Controterrorismo, Meta avrebbe costruito – in senso letterale e metaforico – un ponte digitale con la Cina, ribattezzato internamente Project Aldrin, come se Buzz fosse atterrato non sulla Luna ma sulla Grande Muraglia. Il progetto includeva una pipeline fisica, un’infrastruttura transpacifica progettata per collegare Los Angeles a Hong Kong. Un canale che, stando all’accusa, avrebbe potenzialmente dato al governo cinese una corsia preferenziale per intercettare dati privati degli utenti americani, messaggi inclusi. Il tutto senza mai informare il pubblico, gli azionisti o lo stesso Congresso. L’operazione fu cancellata nel 2020, ma non per un risveglio morale, bensì grazie a un intervento diretto delle autorità statunitensi.
Wynn-Williams sostiene che Meta abbia iniziato a briefare funzionari del Partito Comunista Cinese già nel 2015, alimentando un dialogo riservato con Pechino mentre ufficialmente la narrativa pubblica era quella della censura cinese che impediva a Facebook di operare nel paese. Tradotto: “non possiamo operare lì, ma intanto costruiamo infrastrutture e relazioni per farlo domani, quando il regime sarà pronto”.
La sua accusa è chirurgica: i dirigenti di Meta avrebbero deliberatamente compromesso la sicurezza nazionale americana per inseguire le yuan dreams. “Mentivano a tutti”, dice lei. Aggiunge anche che fu licenziata nel 2017 non per performance, come sostiene Meta, ma per aver denunciato molestie sessuali da parte del suo superiore Joel Kaplan, nome noto nei circoli delle lobby digitali. E se anche questo fosse solo un dettaglio, è un dettaglio che colora la narrativa di vendetta, ma non necessariamente smentisce i fatti portati davanti al Congresso.
Meta, ovviamente, rigetta tutto. Il portavoce Andy Stone liquida le affermazioni come “divorziate dalla realtà”, affermando che l’azienda non opera attualmente in Cina e che i tentativi di penetrazione del mercato furono pubblici e documentati. Un’affermazione che suona come una pezza cucita male: se era tutto noto, perché allora il progetto aveva un nome in codice e accesso limitato a pochi eletti?
Il cuore pulsante di questa vicenda, però, non è la Cina. È il cinismo con cui i colossi tecnologici americani trattano i valori occidentali come una voce a bilancio, da sacrificare in nome della crescita. La sicurezza nazionale diventa un dettaglio tecnico, i diritti digitali degli utenti americani una moneta di scambio, e la trasparenza un concetto negoziabile.
Il libro della whistleblower, Careless People, non è solo un tentativo di monetizzare lo scandalo, ma anche un’accusa a un ecosistema dove la fedeltà geopolitica conta meno del click-through rate. La Silicon Valley, nel suo sogno di dominio globale, sembra non aver mai incontrato un autoritarismo con cui non potesse trattare. E se nel 2025 siamo ancora qui a parlare di cavi sottomarini come cavalli di Troia, allora il problema non è solo Meta.
Benvenuti nell’era in cui i dati non sono più il nuovo petrolio, ma la nuova diplomazia. Qui sotto la Testimonianza
