In un’America già polarizzata su tutto — dalla pizza con l’ananas ai diritti civili ci mancava l’Intelligenza Artificiale a gettare un altro secchio di benzina su un falò che nessuno controlla. L’ultimo studio del Pew Research Center è il termometro perfetto di questa febbre culturale: oltre 1.000 esperti AI da un lato, più di 5.000 comuni cittadini dall’altro. Gli uni pieni di speranza, gli altri col collo rigido dal continuo guardarsi le spalle.
Per gli addetti ai lavori, l’AI sarà manna dal cielo: migliorerà i loro lavori, li renderà più produttivi, li solleverà dalle incombenze inutili. Insomma, il sogno di ogni ingegnere affetto da burnout. Ma per l’americano medio? L’AI è lo spettro del licenziamento, della disinformazione, del controllo sociale. Solo un quarto della popolazione pensa che ne trarrà beneficio. E francamente, chi può biasimarli?
In mezzo a questo cortocircuito culturale, il Congresso degli Stati Uniti si muove con l’agilità di un fax in un mondo di 5G. L’unica cosa bipartisan a Washington pare essere l’incompetenza digitale: interrogazioni teatrali con CEO tech trattati come villain Marvel, mentre i senatori chiedono lumi su “questo famoso algoritmo”.
E non è che gli esperti brillino per fiducia nelle istituzioni. Anche tra chi l’AI la sviluppa ogni giorno, oltre la metà vuole più controllo su come viene usata. Segno che neanche chi costruisce la macchina si fida troppo del guidatore. Governo e aziende private sono visti più come apprendisti stregoni che come regolatori affidabili.
Poi c’è la Generazione Z, quella che nel frattempo ci vive già dentro, con l’AI in tasca. ChatGPT, Copilot, Midjourney: 79% li usa, quasi la metà ogni settimana. Ma fidarsi? Neanche per sogno. Secondo Gallup, il 41% dice che l’AI li rende ansiosi, solo il 36% è entusiasta. Quelli speranzosi? Un misero 27%.
E il motivo è lampante: i giovani sanno che l’AI sarà nel loro futuro lavorativo, ma hanno già capito che non saranno loro a controllarla. Solo un terzo si fida del lavoro prodotto da AI quanto di quello umano. La scuola? Ancora in fase di download del concetto. I luoghi di lavoro? Manca una strategia chiara. E in assenza di regole, cresce l’ansia.
Anche il tema della diversità non è certo secondario. Uomini bianchi, spesso californiani, che plasmano un futuro tecnologico su misura per se stessi, mentre donne, neri, ispanici restano ai margini di un sistema che non li rappresenta nemmeno nel codice. L’inclusività è ancora una voce spenta nel dataset.
Intanto Sam Altman, CEO di OpenAI, dice che nel 2025 i primi “agenti AI” entreranno nella forza lavoro e rivoluzioneranno la produttività aziendale. Bene. Ma chi decide come verranno usati? Chi stabilisce cosa possono o non possono fare? Spoiler: non i cittadini.
La realtà è che la tecnologia corre, la fiducia inciampa. I modelli si moltiplicano, ma l’alfabetizzazione digitale della popolazione (e dei legislatori) resta tragicamente analogica. E mentre l’élite tech brinda all’utopia algoritmica, milioni di americani si sentono comparse in un film di cui non hanno mai letto la sceneggiatura.
Il futuro non è scritto nel codice, è scritto nelle relazioni di potere che decidono chi ne trarrà vantaggio. E per ora, chi lo sviluppa è ottimista perché sa che non sarà la prima vittima del cambiamento. Gli altri? Si tengano forte.
In tutto questo, Trump — sempre più pronto a usare l’AI come clava elettorale — sta già fiutando l’umore del popolo. Scommettiamo che anche stavolta venderà la paura come soluzione?
Benvenuti nell’era in cui nessuno si fida, ma tutti sono coinvolti.