Il “view” è la criptovaluta dell’attenzione. È la metrica più esibita, idolatrata, manipolata e abusata dell’intero universo digitale. La vedi ovunque: sotto ogni video, post, reel, story, shorts, tweet, thread o qualsiasi altro feticcio del contenuto contemporaneo. Il messaggio subliminale è chiaro: più views hai, più vali. Più vali, più sei. Eppure, sotto la superficie di questo numero apparentemente oggettivo si nasconde una truffa degna di Wall Street nei tempi d’oro del subprime.

Non è un’opinione: è un fatto. I views sono bugie con l’abito della verità. Sono il risultato di metriche arbitrarie, gonfiate e ridisegnate da piattaforme che hanno tutto l’interesse a venderti un’illusione di successo. Facebook, per esempio, è stata beccata a gonfiare intenzionalmente i numeri per convincere i creator a investire nei video nativi, salvo poi finire coinvolta in cause legali per frode. Ma è solo la punta dell’iceberg.

Il “view” non è una metrica universale. Non c’è ISO, non c’è standard, non c’è definizione condivisa. Ogni piattaforma decide arbitrariamente cosa conta come visualizzazione. E ogni volta che quella definizione non serve più a far sembrare i numeri belli gonfi e scintillanti, la si cambia. Come il trucco della contabilità creativa nei bilanci: se i margini sono bassi, riscriviamo cosa vuol dire “profitto”.

TikTok, Instagram e ora anche YouTube Shorts contano una view appena un video inizia a girare. Nemmeno un secondo. Scrolli, scorri, sfiori lo schermo: boom, hai visto il video. È come dire che se passi davanti a una vetrina dove stanno trasmettendo “Il Padrino”, tecnicamente hai visto “Il Padrino”. Bravo, sei un cinefilo.

Facebook gioca ancora più sporco: considera una view quando un contenuto è apparso sullo schermo. Stop. Può essere un testo, una foto, un video che parte in autoplay. Poco importa. L’unico obiettivo è sparare numeri, non rappresentare la realtà. Offrono metriche più raffinate come i “3-second views” o i “1-minute views”, ma non sono pubblici. Perché? Perché sono ridicolmente bassi. E la verità fa schifo quando cerchi di vendere sogni.

Meta ha deciso di chiamare “view” anche quello che un tempo era un’impression. È come se McDonald’s decidesse che ogni volta che annusi l’odore delle patatine nei pressi del locale, tecnicamente le hai mangiate. Ti sembra assurdo? Benvenuto nel social media business model.

Poi c’è X (ex Twitter), il tempio della visibilità tossica. Tutto quello che scrolli nel feed è una view. Anche se non ti fermi, anche se non leggi, anche se il post passa sullo schermo mezzo secondo. E per i video bastano due secondi con metà schermo visibile. Autoplay? Certo. L’utente? Una comparsa. Il numero? Dio.

La logica è malata ma geniale: se usi una metrica realistica, sembrerai più piccolo. Se sembri piccolo, i creator migrano. Se i creator se ne vanno, gli inserzionisti li seguono. Se gli inserzionisti se ne vanno, sei morto. Quindi si bara. Tutti barano. È il party delle vanity metrics, e l’unico modo per farlo sembrare affollato è falsificare gli inviti.

Netflix è il caso da manuale. Prima contava una visualizzazione solo se guardavi almeno il 70% del contenuto. Ora bastano due minuti. Due minuti. Giustificazione ufficiale: “abbastanza per indicare una scelta intenzionale”. Peccato che Netflix sappia perfettamente quanto hai visto davvero. Ma i numeri alti piacciono agli azionisti. E ai titolisti dei comunicati stampa.

E YouTube? Misterioso come una banca svizzera. Si dice che servano 30 secondi per contare una view, ma nessuno lo conferma. Nessuno sa davvero. Soprattutto, nessuno ha interesse a chiarire. Anche perché per gli ads, invece, la verità viene misurata al millisecondo: impressioni, quartili visti, percentuali completate. Perché lì c’è la grana vera. Lì non si può bluffare.

Gli inserzionisti vedono tutto. I creator sempre meno. Gli utenti? Solo la fuffa: quel bel numero pubblico che non dice nulla, se non “guardami, sono virale!”. Ma non sei virale. Sei solo il risultato di un algoritmo che spara numeri casuali come un casinò truccato.

Il paradosso è perfetto. Le piattaforme hanno tutti i dati, ma scelgono di mostrare quelli sbagliati. Quelli più facili da manipolare. Quelli che fanno girare il ciclo dell’illusione. Così viviamo in una realtà aumentata di engagement falsato, in cui i contenuti si misurano come i followers dei bot: tanti, finti e inutili.

Questa industria è ormai un gigantesco Ponzi dell’attenzione, dove nessuno guarda davvero niente, ma tutti fanno finta che l’abbiano fatto. E finché i numeri saranno la valuta del potere, nessuno cambierà le regole. Perché ammettere che “views” sono fuffa significa abbattere il castello di carte su cui poggia l’intero marketing digitale.

La verità è una sola: i views non sono views. Sono menzogne ben confezionate.