The Guardian. Quando un assistente vocale si trasforma in un infiltrato involontario in una chat riservata su un attacco militare, si capisce che siamo ufficialmente entrati nell’era del digital far west. La notizia, rivelata da The Guardian, ha del grottesco ma anche del profetico: Jeffrey Goldberg, direttore dell’Atlantic, è stato aggiunto per errore in un gruppo Signal dove si discuteva, con una certa urgenza, di un’operazione militare imminente in Yemen. Un incidente che non ha nulla a che vedere con hacker, spionaggio internazionale o whistleblower: la colpa è (pare) di Siri.

Secondo fonti interne alla Casa Bianca, un’inchiesta ha rivelato che il consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz voleva aggiungere al gruppo un portavoce della campagna di Trump. Ma quando ha cercato di farlo, il suo iPhone nella sua illimitata e apparentemente incontrollata saggezza gli ha suggerito di aggiornare un contatto esistente. Quel contatto, ahimè, includeva il numero di Goldberg, acquisito chissà quando da una firma automatica in una mail passata.

La sequenza è degna di una tragicommedia burocratica. Goldberg aveva scritto alla campagna di Trump per ottenere un commento su un articolo critico nei confronti dell’ex presidente, in particolare sulla sua (solita) insensibilità verso i veterani feriti. Il suo messaggio, firmato con tanto di recapito telefonico, viene inoltrato dal portavoce Brian Hughes a Waltz. E lì entra in scena Siri, che – come un segugio iperattivo – associa il numero di Goldberg al nome del portavoce e propone il classico “vuoi aggiornare il contatto?”. Waltz accetta. Fine della privacy, inizio del caos.

Il problema? Quel numero diventa parte integrante del contatto del portavoce e, settimane dopo, Waltz lo usa per aggiungerlo al gruppo Signal in cui si discute – senza troppi filtri, immaginiamo – di bombardamenti in Yemen. Goldberg, presumibilmente sorpreso ma mai impreparato, si ritrova nella stanza virtuale dove nessun giornalista dovrebbe essere, almeno non senza un invito formale del Pentagono.

È l’equivalente digitale di lasciare i piani dell’operazione Desert Storm sulla stampante della sala stampa. E qui non c’entrano i russi, i cinesi o i nordcoreani: è colpa dell’assistente personale con la voce più neutra dell’universo.

Questa vicenda ridicolizza l’illusione di controllo che il governo americano continua ad avere sulla sua comunicazione interna. L’autorizzazione all’uso di Signal tra le agenzie federali è già una mezza ammissione di fallimento infrastrutturale – “non c’è alternativa” suona più come “non abbiamo ancora fatto il nostro lavoro” – ma il fatto che tutto sia appeso ai suggerimenti di Siri mette il punto definitivo su quanto consumer-grade sia l’architettura di sicurezza digitale anche ai vertici più alti.

È come se in una riunione del consiglio di amministrazione di una banca centrale si usasse WhatsApp Web su un MacBook condiviso con i figli per fare i compiti. Ridicolo? Sì. Ma reale. E profondamente inquietante.

Apple, prevedibilmente, non ha commentato. D’altronde, non è nemmeno chiaro se dovrebbe. Siri ha fatto quello che è programmata per fare: aiutare. È l’essere umano che ha cliccato “accetta” senza leggere. Ancora una volta, il bug è tra tastiera e sedia.

Ma nel frattempo, un giornalista si è trovato in un gruppo privato su un attacco in Yemen. E questo, onestamente, dice tutto su quanto la sicurezza nazionale americana sia diventata vulnerabile, non per colpa di sofisticati cyber-attacchi, ma per la banalità di un assistente virtuale troppo solerte e un dito poco attento.