Nel grande teatro della geopolitica industriale, Trump torna a calcare il palcoscenico con la delicatezza di un elefante in un negozio di porcellane. Il suo ultimo atto? Un’imposizione di dazi del 34% sulla Cina, con appendici velenose del 46% sul Vietnam e del 26% sull’India. Una mossa che fa tremare le vene ai polsi del mondo tech, ma a Shenzhen, qualcuno sembra aver letto il copione in anticipo. Luxshare Precision Industry, pezzo da novanta della catena di montaggio di Apple, ha già incassato il colpo – almeno sulla carta – e risponde con sangue freddo e manuale di risk management sotto braccio.

Il messaggio, veicolato attraverso le pagine della Shanghai Securities News, è chiaro: “Ci siamo preparati”. Tradotto: diversificazione del portafoglio clienti, decentralizzazione delle operazioni produttive e investimenti muscolari nell’innovazione autonoma delle tecnologie core. In sostanza, Luxshare ha smesso da tempo di mettere tutte le uova nel cesto della Mela.

Sotto il profilo tecnico, l’azienda ricorda che sotto le clausole FOB (Free On Board) – tanto care al diritto commerciale internazionale – i dazi li paga l’importatore. In altre parole, Trump non colpisce direttamente il produttore cinese, ma il consumatore americano e chi importa, ovvero Apple stessa. Una precisazione da avvocati d’affari, ma che inchioda al muro la narrativa populista del “torniamo a produrre in casa”. Produrre in casa, per inciso, non conviene a nessuno, come sottolinea con fredda precisione Neil Shah, VP di Counterpoint: “Zero vantaggi in termini di costo. Nessun produttore sposterà fabbriche negli USA senza incentivi colossali e manodopera specializzata a buon mercato”. Tradotto in americano: sogna, Donald.

Nel frattempo, la Borsa è meno filosofica. Le azioni Luxshare, listate a Shenzhen, crollano del 10% venerdì e di un altro 10% lunedì, raggiungendo i 31,88 yuan. È il punto più basso dell’anno. Ma non è sola nella caduta: Goertek e Lens Technology, altri due fornitori cinesi di Apple, seguono lo stesso destino, vittime collaterali dell’ennesima guerra tariffaria senza vincitori. Apple stessa chiude in rosso del 7% a Wall Street. Chi paga, quindi, non è solo Pechino.

Eppure, Luxshare ostenta un controllo glaciale. Apple ha costruito il proprio impero su una rete produttiva tanto tentacolare quanto interconnessa in Cina, dove 157 fornitori – secondo l’ultimo supplier list pubblicato da Cupertino – rappresentano il 98% della spesa diretta per materiali e assemblaggio a livello globale. Pensare di sradicare questo ecosistema e trapiantarlo altrove non è solo naïf, è logisticamente suicida. Il processo di diversificazione asiatica è già in atto, sì, ma è chirurgico, graduale, e non può rispondere ai diktat di una campagna elettorale.

E mentre Tim Cook fa passerella nelle fabbriche di Luxshare – immortalato lo scorso ottobre in pieno stile “friendly CEO” – la verità è che Apple non può ancora fare a meno della Cina. Ma, a differenza di ieri, nemmeno Luxshare può fare a meno di prepararsi al peggio. La globalizzazione è diventata una partita a scacchi in cui ogni mossa può costare miliardi e la regola non scritta è una sola: prevedi l’imprevedibile.

La guerra dei dazi, insomma, non è altro che l’ennesima puntata della soap opera economica più cinica del nostro tempo, dove il patriottismo si misura in punti percentuali e i danni collaterali si scaricano sugli scaffali dei consumatori americani già schiacciati dall’inflazione.

Nel frattempo, Luxshare si muove in silenzio, come un contractor addestrato, pronto a disassemblare e rimontare la catena globale della produzione tech, pezzo per pezzo, da Shenzhen a dove conviene.