La scena è degna di una tragicommedia geopolitica. Mentre gli Stati Uniti, guidati dalla crociata protezionista dell’amministrazione Biden – erede spirituale delle politiche tariffarie massimaliste di Trump – impongono barriere commerciali a destra e a manca, Elon Musk si presenta come il profeta solitario del libero scambio. Lo fa non in un consiglio economico o durante un vertice multilaterale, ma nel modo più Musk possibile: durante un incontro con il vicepremier italiano Matteo Salvini e poi, ovviamente, postando su X alle prime luci dell’alba. Perché la diplomazia è morta, lunga vita ai social.

Secondo Bloomberg, Musk ha proposto una “zona di libero scambio effettiva” tra Europa e Nord America. Niente dazi, niente barriere, solo flussi commerciali lisci come una Model S su strada libera. Un’utopia liberista pronunciata proprio mentre la Casa Bianca si barrica dietro dogane blindate, pronta a scatenare guerre commerciali nel nome di una sovranità economica sempre più farsesca.

L’idea di Musk, dal punto di vista strettamente tecnico, non è affatto peregrina. Una zona di libero scambio transatlantica accelererebbe l’innovazione, abbasserebbe i prezzi, e renderebbe l’Occidente economicamente competitivo rispetto al colosso cinese. In fondo, Musk non è un teorico: è un uomo che costruisce razzi, gigafabbriche e algoritmi per il futuro dell’umanità. Capisce che ogni ostacolo artificiale ai flussi produttivi è un colpo inferto alla crescita.

Ma qui entriamo nella sfera del realismo politico, dove le visioni di Musk si scontrano con la brutalità del nazionalismo economico. Il riferimento sprezzante a Peter Navarro, ex zar del commercio trumpiano, non è solo un capriccio polemico: è una dichiarazione di guerra ideologica. Navarro, fautore del protezionismo a stelle e strisce, ha sempre visto nella Cina il nemico numero uno e nella deregulation globale una minaccia esistenziale per il “lavoratore americano”. Una visione tanto miope quanto pericolosa.

Musk, invece, vede un mondo iperconnesso dove le supply chain devono correre veloci, non inciampare su una tassa doganale imposta da un burocrate di Washington o Bruxelles. La Tesla, come ogni multinazionale moderna, è un prodotto della globalizzazione avanzata: batterie cinesi, software americano, ingegneria tedesca. Mettere dazi è come mettere il freno a mano a una macchina in corsa.

E qui viene il paradosso: mentre Musk predica efficienza e apertura, i governi occidentali – sia a sinistra che a destra – si chiudono a riccio, vittime di un populismo economico che scambia l’autarchia per sovranità. Salvini ascolta Musk ma poi governa in un Paese dove il protezionismo è una religione trasversale. Biden combatte Trump a colpi di dazi, cercando di rubargli l’elettorato industriale con le stesse armi tossiche.

Quello che Musk non dice, ma suggerisce tra le righe, è che l’Occidente rischia di suicidarsi economicamente proprio mentre la Cina, l’India e il blocco asiatico accelerano verso la supremazia produttiva. Ogni barriera doganale è un favore a Pechino. Ogni protezione inefficiente è un altro chiodo nella bara della competitività.

In fin dei conti, il sogno della “zero-tariff zone” tra Europa e Nord America è un messaggio più profondo: o torniamo a pensare in modo sistemico e strategico, o continueremo a perdere terreno, un dazio alla volta.

E nel frattempo Musk continuerà a lanciare razzi verso Marte, probabilmente senza pagare dazi all’uscita dall’atmosfera.

Fonte originale: Bloomberg – Elon Musk vuole una zona di libero scambio con l’Europa