Il potere liquido del digitale: la nuova autarchia tecnologica tra Silicon Valley, Cina e crisi delle democrazie.
L’epoca che stiamo attraversando non ha eguali nella storia. Non è tanto una questione di tecnologia in sé, quanto della sua velocità, della sua capillarità, e soprattutto della sua imprevedibile capacità di ridefinire strutture di potere, categorie politiche e fondamenta sociali. Se fino a ieri le guerre si combattevano con carri armati, oggi si conducono con algoritmi, piattaforme, intelligenza artificiale e manipolazione cognitiva di massa. E chi le combatte, sempre più spesso, non indossa una divisa. È un ingegnere di Stanford, un imprenditore visionario in t-shirt nera, un fondo sovrano saudita o un partito comunista che ha capito come si programma un sistema operativo.
La tecnologia digitale non è più una componente del sistema: è il sistema. E in questa mutazione genetica della realtà sociale, economica e politica globale, si intravede un disegno emergente – non sempre intenzionale, ma comunque dirompente – che sta ridefinendo gli assi della geopolitica. Gli attori centrali di questa trasformazione non sono più gli Stati, ma gli attori extra-statuali, potentati digitali, corporate apolidi che accumulano capitale, dati e influenza in una misura senza precedenti. È la “balcanizzazione del potere”, ma con server sparsi nei deserti del Nevada e nei data center sottomarini di Google, non più tra le montagne dei Balcani.
La Silicon Valley è stata la culla di questa metamorfosi, un ecosistema unico al mondo dove si sono fusi spirito libertario, venture capital, sogni californiani e architetture di potere basate sulla scalabilità del codice e sulla rendita dei dati. Da qui sono usciti i padroni del nuovo mondo: Musk, Bezos, Thiel, Zuckerberg, veri e propri Caesar digitali che, tra razzi spaziali, AI e deep state, stanno scrivendo una nuova versione del De Bello Gallico ma stavolta in Python.
Quello che oggi vediamo accadere – dallo smantellamento progressivo dello Stato federale americano a colpi di deregulation, al flirt sempre meno velato tra alcune big tech e visioni politiche autoritarie o neo-reazionarie non è accidentale. È una forma di riallineamento strategico. Un tempo la Silicon Valley era il laboratorio dell’utopia progressista. Oggi si assiste a un lento ma costante riorientamento verso posizioni “illiberali”, supportate da una narrazione tecnocratica che contesta le strutture tradizionali della democrazia liberale, in nome dell’efficienza, della sicurezza, della meritocrazia algoritmica.
Elon Musk che si muove ormai come un attore geopolitico a sé stante, capace di spegnere satelliti in zone di guerra o di influenzare mercati globali con un tweet è emblematico. Il suo endorsement per visioni vicine al trumpismo e la sua ossessione per il controllo dell’informazione attraverso Twitter (pardon, X) raccontano qualcosa di più profondo: la politica non guida più la tecnologia, la subisce. E quando ci prova, viene marginalizzata, derisa o sovrascritta da un aggiornamento del software.
La Cina, ovviamente, ha letto bene il copione. Non l’ha solo letto, lo sta riscrivendo. Ha compreso che il dominio tecnologico è il nuovo dominio militare. Sta costruendo il suo ecosistema chiuso, alternativo a quello occidentale, basato su un modello centralizzato, tecnocratico, e profondamente autarchico. Eppure, paradossalmente, questa visione piace a molti anche in Occidente, dove cresce il fascino dell’efficienza asiatica, della “neutralità” dell’algoritmo che decide senza sindacati né opinioni pubbliche. È il sogno umido di ogni CEO con manie di controllo e il peggiore incubo per ogni democrazia parlamentare.
Nel mezzo, l’Europa. O meglio, il vuoto europeo. Schiacciata tra la supremazia americana delle piattaforme e l’aggressività cinese dei sistemi, l’Unione Europea arranca tra regolamenti (GDPR, DMA, DSA) che, per quanto nobili, suonano come tentativi di mettere un semaforo in mezzo a un’autostrada di droni. E soprattutto non riesce a generare un’alternativa: né tecnologica, né narrativa, né geopolitica.
La questione di fondo, dunque, è strategica: come si configura il potere nell’era post-statale del digitale? Quali sono le ideologie, le visioni, le architetture valoriali che animano questi nuovi attori globali? Esiste un’etica condivisa, un sistema di governance multilivello o siamo davanti a un nuovo feudalesimo hi-tech? E infine: cosa resta della democrazia quando le sue fondamenta – la deliberazione, il consenso, la rappresentanza – vengono algoritmicamente sostituite dal “click”, dal “like” e dal “recommendation system”?
Le democrazie, secondo i dati Freedom House e V-Dem, sono in chiaro regresso. Non solo nei Paesi tradizionalmente instabili, ma anche nelle roccaforti occidentali. Il dibattito pubblico è sempre più polarizzato, la fiducia nelle istituzioni erosa da fake news, disintermediazione e populismo digitale. Ma attenzione: non è solo colpa degli algoritmi. È che le democrazie hanno smesso di aggiornarsi, mentre il mondo attorno correva a 10 gigabit al secondo.
Siamo entrati in una fase in cui il potere non si prende, si programma. E chi controlla il codice, controlla il mondo. Il potere oggi è liquido, decentralizzato, opaco. E spesso non ha volto, né passaporto. Ma ha un data center, una stablecoin e una strategia.
Chi pensa ancora che la geopolitica si giochi solo nei palazzi dei governi, forse dovrebbe iniziare a guardare dentro i board delle big tech, negli spazi di incubazione dell’AI cinese, nei laboratori quantistici, nei wallet di criptovalute e nei substack degli intellettuali accelerazionisti.
Il nuovo ordine mondiale non sarà scritto con trattati, ma con API e per chi non sa leggere il codice, sarà solo un altro schermo nero.
L’industria tecnologica americana si trova di fronte a una nuova realtà geopolitica che potrebbe mettere a rischio uno dei suoi mercati più redditizi: l’Europa. Le grandi aziende tecnologiche come Alphabet, Meta e OpenAI, che per anni hanno navigato senza troppi intoppi nei mercati globali, si trovano ora in una posizione scomoda, intrappolate tra la crescente ostilità degli Stati Uniti verso l’Europa e la crescente diffidenza europea nei confronti della supremazia tecnologica americana. La situazione si è complicata ulteriormente con l’amministrazione Trump, che non solo ha intrapreso una guerra commerciale con la Cina, ma sembra ora disposta a compromettere i legami transatlantici, mettendo a rischio l’accesso delle aziende tech americane ai mercati europei.
Negli ultimi dieci anni, il panorama tecnologico globale è cambiato drasticamente. Le aziende tecnologiche americane, un tempo convinte che Internet sarebbe stato uno strumento di liberalizzazione politica, si sono ritrovate ad affrontare una crescente divisione geopolitica. L’amministrazione Trump, con il suo approccio nazionalista e la sua visione di un’America più isolata, ha messo in difficoltà le stesse aziende tecnologiche che avevano goduto della protezione politica di Washington. L’Europa, da parte sua, ha iniziato a chiedersi se la sua dipendenza dalle tecnologie americane non fosse un rischio per la sua sicurezza nazionale e competitività.
Dieci anni fa, l’idea che l’industria tecnologica americana fosse destinata a spingere i confini della democrazia globale sembrava indiscutibile. Le aziende di Silicon Valley si consideravano parte di un progetto che mirava a rendere il mondo più aperto e libero. Dalle primissime iniziative per promuovere Internet come strumento di liberazione politica in paesi come la Cina e l’Iran, fino al supporto offerto a movimenti di protesta, la tecnologia era vista come un alleato naturale della politica liberale. Tuttavia, l’ascesa di Trump ha cambiato il contesto. Le tecnologie che un tempo avrebbero potuto indebolire i regimi autoritari sono ora utilizzate per accentuare la divisione tra le democrazie e la crescente minaccia di stati autoritari, con la Cina in prima linea.
Non sorprende quindi che le aziende tecnologiche americane, come Facebook, Google e Microsoft, abbiano cercato di avvicinarsi al nuovo ordine di Trump, sperando di ottenere favore e vantaggi. Tuttavia, si trovano ora a fare i conti con una realtà in cui la rivalità con la Cina non è l’unico fattore di stress. Il crescente disprezzo di Trump per le alleanze transatlantiche ha messo queste stesse aziende in un angolo. In particolare, l’ostilità verso l’Unione Europea, espressa apertamente da alcuni membri del governo americano, ha alimentato la preoccupazione che le normative europee possano minare i modelli di business di Big Tech.
L’Europa, per la sua parte, ha cominciato a vedere la dipendenza dalle piattaforme tecnologiche americane non solo come un problema di competitività, ma anche come una vulnerabilità strategica. Un aspetto particolarmente preoccupante riguarda la questione della privacy e della protezione dei dati. Le aziende tecnologiche americane, che gestiscono una grande quantità di dati provenienti dall’Europa, rischiano di veder minato il loro accesso al mercato europeo, a causa delle crescenti normative sulla privacy imposte dalla Commissione Europea. L’accordo transatlantico che aveva garantito il flusso dei dati attraverso l’Atlantico è ora in bilico, e i giudici e i regolatori europei sono pronti a intervenire.
Le dichiarazioni pubbliche di Trump contro l’Europa, combinati con la sua reticenza a rispettare gli accordi internazionali, potrebbero accelerare questa tendenza. I dubbi sull’affidabilità delle promesse americane stanno crescendo in Europa, soprattutto dopo lo scandalo Snowden che ha esposto le attività di sorveglianza degli Stati Uniti sulle comunicazioni degli europei. Questo potrebbe spingere l’Europa a sviluppare soluzioni tecnologiche autonome, riducendo progressivamente la dipendenza dalle infrastrutture digitali americane.
Con l’avanzare di questa frattura geopolitica, è sempre più probabile che l’Europa inizi a costruire alternative proprie a Google, Facebook e Amazon. Le istituzioni europee e le aziende locali sono già al lavoro per creare piattaforme che non dipendano dalle regole e dai capricci della politica americana. Le iniziative per sviluppare cloud computing e piattaforme sociali proprie sono ormai realtà concrete, con l’obiettivo di garantire una maggiore autonomia strategica.
Inoltre, l’intervento di Elon Musk, proprietario di Starlink e Tesla, in questioni politiche controverse, ha suscitato preoccupazioni tra i governi europei. Musk, con le sue dichiarazioni e azioni, ha sollevato dubbi sul fatto che le tecnologie americane possano essere utilizzate contro gli interessi europei. L’idea che le aziende tecnologiche americane possano manipolare i dati e influenzare le politiche interne dei paesi europei sta diventando un tema centrale del dibattito pubblico. In Germania e nel Regno Unito, per esempio, la preoccupazione è che i miliardari della tecnologia stiano cercando di sovvertire la democrazia.
La situazione attuale sta rapidamente evolvendo verso una separazione digitale tra gli Stati Uniti e l’Europa, con possibili ripercussioni economiche significative per le aziende tecnologiche americane. Se l’Europa dovesse davvero interrompere i flussi di dati con gli Stati Uniti, aziende come Meta, Google e Microsoft si troverebbero ad affrontare un mondo molto diverso da quello che avevano immaginato. La fine dell’Internet globale, in cui le piattaforme americane dominano, potrebbe diventare una realtà. Non sarebbe solo una sconfitta economica per gli Stati Uniti, ma segnerebbe anche una frattura nelle relazioni di sicurezza tra i due continenti.
Mentre l’Europa sta iniziando a considerare soluzioni autonome, l’industria tecnologica americana rischia di scoprire che la sua capacità di operare liberamente in Europa è sempre più limitata. Se Trump e i suoi alleati continueranno a minare le relazioni con l’Europa, le aziende tecnologiche