All’inizio della settimana, la nuova funzione di generazione di immagini di OpenAI sembrava solo l’ennesima trovata per farci perdere tempo in modo divertente. Gli utenti di ChatGPT si sono scatenati con il filtro in stile Ghibli, trasformando tutto, dai gatti ai caffè mattutini, in adorabili capolavori animati. Poi è arrivato il giovedì, e la Casa Bianca ha deciso di rovinare la festa.

Sul suo account X è comparsa una foto di un detenuto in lacrime, un presunto trafficante di fentanyl e immigrato irregolare. Accanto, un’immagine palesemente generata dall’IA: un agente che ammanetta la donna in un’estetica inconfondibile, quella delle imitazioni Ghibli che hanno invaso il web. Nessuna attribuzione a uno strumento specifico, ma il segno di ChatGPT è evidente.

Il problema non è tanto lo strumento in sé, quanto il modo in cui viene usato. Quello che sembrava un giocoso tributo allo studio di Hayao Miyazaki si è trasformato in una grottesca campagna di propaganda governativa. In un cortocircuito che avrebbe fatto impazzire Orwell, l’arte sognante di Miyazaki il regista che ha definito l’IA “un insulto alla vita stessa” è stata sfruttata per umiliare pubblicamente una detenuta.

Non sappiamo con certezza se l’immagine sia stata creata con ChatGPT o con un altro generatore. Ma sappiamo che Sam Altman, CEO di OpenAI, sta promuovendo con entusiasmo il filtro Ghibli come feature esclusiva per gli utenti paganti di ChatGPT. Sappiamo anche che Donald Trump ha stretti legami con OpenAI, avendo già presentato il progetto Stargate in conferenza stampa con Altman. E sappiamo che l’amministrazione USA non si è mai fatta problemi a spettacolarizzare la crudeltà basta ricordare il video ASMR di deportazioni, con il suono delle catene come colonna sonora.

La politica di oggi si muove nel territorio delle reazioni social, e il filtro Ghibli e la propaganda trumpiana sembrano fatti l’uno per l’altra: entrambi sfruttano l’estetica per manipolare le emozioni e vendere un’idea di potere senza empatia. L’obiettivo della Casa Bianca non era informare, ma generare engagement con una miscela tossica di violenza e kawaii. E OpenAI, anche senza un endorsement esplicito, ha fornito lo strumento perfetto per farlo.

Otto anni fa, l’industria tech avrebbe preso le distanze. Nel 2016, la Silicon Valley era ancora in opposizione aperta a Trump, e aziende come Google e Facebook cercavano di mostrarsi progressiste. Oggi, con il clima politico mutato e il settore AI sempre più spostato a destra, un gigante come OpenAI non ha alcun interesse a inimicarsi il potere. Potrebbe benissimo pubblicare una dichiarazione tipo: “Crediamo nella massima libertà artistica, ma questo uso della nostra tecnologia non riflette i nostri valori”. Ma non lo farà. Perché ora il business è troppo grande per rischiare di scontrarsi con un presidente vendicativo.

E poi c’è un problema ancora più profondo: l’idea stessa dietro il filtro Ghibli è il riflesso di un’industria che tratta l’arte come un bottino di guerra. OpenAI non ha chiesto il permesso a Miyazaki o agli artisti di Ghibli per creare il suo generatore. Non ha collaborato con illustratori viventi, non ha cercato di valorizzare talenti emergenti. Ha semplicemente preso, addestrato un modello e venduto l’accesso. Il messaggio sottinteso? “Prendiamo ciò che vogliamo e non ci interessa la vostra opinione”.

E questo atteggiamento di predazione non riguarda solo l’arte. È il paradigma di tutta l’industria AI: un’ideologia basata sulla dominazione, sulla convinzione che il progresso significhi schiacciare chiunque osi opporsi. Trump e Musk sono gli ambasciatori più visibili di questa filosofia, ma aziende come OpenAI la incarnano perfettamente. L’IA non avanza per rispondere a un bisogno, ma perche’ è inevitabile. Le critiche non contano, l’etica è un freno inutile. E se un artista protesta perché la sua opera viene sfruttata? Peggio per lui, il futuro non aspetta.

Il paradosso è che, in mezzo a un mare di funzioni AI inutili, il filtro Ghibli è una delle poche cose che la gente adora davvero. OpenAI avrebbe potuto svilupparlo in modo etico, collaborando con artisti reali. Avrebbe potuto rendere questa estetica parte di una celebrazione dell’arte, invece di una dimostrazione di forza. Ma sarebbe servita una visione diversa, una che vedesse gli esseri umani come partner, non come ostacoli.

Il problema non è che le persone usino ChatGPT per generare immagini carine. Il problema è che la stessa tecnologia che crea queste immagini può essere usata per trasformare la crudeltà in spettacolo. E se OpenAI sta in silenzio mentre la Casa Bianca sfrutta i suoi strumenti per bullizzare i deboli, la domanda è: dov’è la linea che non sarà mai disposta a superare?


L’onda dell’arte AI: quando Ghibli e la tecnologia si scontrano

Il mondo non si è trasformato in un anime, ma sembra proprio che stia cercando di farlo. Le immagini generate in stile Studio Ghibli hanno invaso i social media, alimentando dibattiti sull’intelligenza artificiale e sul suo ruolo nell’arte. Non si tratta più solo di un trend estemporaneo, ma di una vera e propria corsa che ha fatto lievitare il valore di una meme coin basata su Solana, arrivando a toccare una capitalizzazione di mercato vicina ai 30 milioni di dollari. Ma davvero cosa sta succedendo? L’AI, Ghibli e una crescente polemica sul futuro dell’arte.

Fondato nel 1985 da Hayao Miyazaki e Isao Takahata, Studio Ghibli è diventato sinonimo di un tipo di animazione che fonde fantasia, dettaglio e profondità emotiva. Film come Spirited Away, vincitore dell’Oscar, sono entrati nella storia del cinema, consacrando il studio tra i più amati e influenti a livello globale. Ogni pellicola di Ghibli è una narrazione visiva che cattura l’immaginazione, dai paesaggi mozzafiato alle espressioni delicate dei suoi personaggi. Ma c’è un piccolo problema: Miyazaki non è esattamente entusiasta della tecnologia che oggi cerca di imitare il suo stile. Nel 2016, durante un documentario, definiva l’AI un “insulto alla vita”, una visione che oggi sembra rivelarsi sempre più profetica, anche se in modo inaspettato.

Nonostante le sue critiche, l’arte di Ghibli è ora il bersaglio di un fenomeno virale, in cui milioni di utenti si accalcano per trasformare le loro immagini in opere d’arte che sembrano uscite direttamente da uno dei suoi film. L’evoluzione tecnologica è ormai tale che anche la Casa Bianca si è unita al gioco, pubblicando immagini in stile Ghibli, nonostante il dibattito in corso sulla legittimità di utilizzare una tecnologia di questo tipo per emulare il lavoro di artisti umani.

Come funziona il processo di “Ghiblificazione”? È semplice: basta caricare un’immagine sulla piattaforma basata su GPT-4o, l’ultima versione dell’algoritmo di OpenAI, e chiedere di trasformarla nello stile del celebre studio giapponese. L’intelligenza artificiale, in pochi istanti, genera una versione dell’immagine che emula l’estetica dei film di Ghibli, completando in pochi secondi ciò che normalmente richiede anni di lavoro manuale. Gli utenti sono entusiasti dei risultati e, come dimostrato anche da un famoso esempio con il logo di Bitcoin, le richieste di trasformazioni “Ghiblificate” si moltiplicano a dismisura.

La domanda di immagini in stile Ghibli ha avuto un impatto enorme su OpenAI, la compagnia che ha sviluppato GPT-4o. Sam Altman, CEO di OpenAI, ha dichiarato che la richiesta di generare immagini in questo stile ha messo sotto pressione i server della compagnia, costringendo a limitare l’accesso per gli utenti della versione gratuita, con una “generazione gratuita” limitata a tre immagini al giorno. Ma non si tratta solo di un intoppo tecnico; il vero nodo della questione è la crescente domanda di intelligenza artificiale per la produzione artistica, che sta facendo impazzire i social e sollevando interrogativi su cosa sia davvero l’arte nell’era dell’AI.

Il paradosso dell’arte: Ghibli e i diritti di proprietà intellettuale

Tuttavia, non tutti sono entusiasti di questa nuova tendenza. Il dibattito sull’utilizzo dell’AI per generare arte ha sollevato questioni legate ai diritti di proprietà intellettuale e all’autenticità dell’arte. Alcuni artisti e creatori esprimono preoccupazione per il fatto che l’arte prodotta dall’AI venga utilizzata per promuovere prodotti o progetti senza che vi sia un compenso equo per i creatori originali. La critica è in parte legata alla visione di Miyazaki, che ha sempre visto l’AI come una minaccia per la vera arte.

Nel frattempo, il mercato delle meme coin ha fatto il suo ingresso nella discussione: una nuova moneta meme ispirata a Studio Ghibli, costruita sulla blockchain Solana, ha visto il suo valore esplodere, con una capitalizzazione di mercato che ha superato i 28 milioni di dollari. Quella che inizialmente sembrava una curiosa anomalia economica è diventata un caso di studio su come la cultura pop e le tendenze tecnologiche possano convergere in modi inaspettati.

Il futuro dell’arte e della creazione nell’era dell’AI

Il futuro della creazione artistica è in bilico. Se da un lato c’è chi teme che l’arte generata dall’intelligenza artificiale possa diluire il valore delle opere originali, dall’altro c’è chi suggerisce che il futuro potrebbe risiedere in un equilibrio tra creatori e macchine. La chiave, secondo alcuni esperti, risiede nell’innovazione delle soluzioni per monetizzare la proprietà intellettuale. Progetti come Story Protocol stanno cercando di creare sistemi che permettano agli artisti di proteggere e guadagnare dalla loro arte, anche quando questa viene emulata da un’intelligenza artificiale. Ma mentre alcuni vedono l’AI come un’opportunità per democratizzare la creazione artistica, altri temono che si stia creando un mercato squilibrato, dove la produzione automatica rischia di superare la capacità creativa degli esseri umani.

In un mondo sempre più invaso dalla tecnologia, la domanda rimane: chi detiene davvero il diritto di creare? E, soprattutto, fino a che punto siamo disposti a sacrificare l’autenticità dell’arte in nome di un progresso che rischia di trasformare la creazione in una corsa a chi arriva prima? La Ghiblificazione potrebbe essere solo l’inizio di una lunga battaglia tra l’uomo, la macchina e i diritti di proprietà intellettuale.