Mentre Donald Trump continua a blindare l’economia americana con dazi e protezionismo, Pechino gioca la carta opposta: aprire nuovi settori agli investitori internazionali e mostrarsi come il faro della globalizzazione economica. Il premier cinese Li Qiang ha inviato un messaggio chiaro ai vertici del business mondiale riuniti al China Development Forum: la Cina è aperta, pronta ad accogliere capitali stranieri e determinata a essere il motore della crescita globale.

Se l’America di Trump si avvita su se stessa con barriere commerciali, la Cina si propone come l’alternativa logica per chi vuole fare affari senza i vincoli del protezionismo. Ma dietro questa apparente apertura, si nasconde una mossa calcolata: Pechino sa bene che la sua economia è sotto pressione e che il capitale straniero può essere la chiave per sostenere il proprio sviluppo.

La strategia di Pechino: globalizzazione a modo suo

Li Qiang ha parlato di un “rainforest of innovation” che sta crescendo in Cina, un ecosistema che ha già dato vita a unicorni tecnologici come l’AI start-up DeepSeek e il produttore di robot Unitree. Un messaggio chiaro agli investitori occidentali: chi resta fuori dalla Cina rischia di perdere il prossimo treno dell’innovazione.

Ma la vera partita si gioca su un altro fronte: il governo cinese sta eliminando restrizioni in settori chiave come finanza, telecomunicazioni, internet, sanità ed educazione. Questo potrebbe attirare colossi globali, ma resta da vedere quanto sarà davvero garantita una competizione equa. La Cina ha una lunga storia di barriere invisibili che favoriscono le proprie aziende locali e rendono difficile l’ingresso agli stranieri.

Allo stesso tempo, Pechino ha promesso di migliorare la protezione della proprietà intellettuale e facilitare il flusso di dati transfrontalieri. Una mossa necessaria per convincere le big tech occidentali a investire senza il timore che la loro tecnologia venga copiata o “assorbita” dal sistema cinese.

L’America isolata, la Cina si candida come porto sicuro

Uno dei passaggi più interessanti del discorso di Li Qiang è stato il richiamo all’unità delle imprese globali contro il protezionismo. In altre parole, Pechino cerca di costruire un fronte comune contro le politiche di Trump, offrendo alle multinazionali un’alternativa meno restrittiva.

Questa strategia ha colpito nel segno, almeno a giudicare dalla presenza massiccia di CEO occidentali all’evento: Tim Cook (Apple), Stephen Schwarzman (Blackstone), Hock E. Tan (Broadcom), Bob Sternfels (McKinsey), Albert Bourla (Pfizer), Rajesh Subramaniam (FedEx) e tanti altri.

Le parole di Sean Stein, presidente dell’US-China Business Council, sono emblematiche: la Cina si sta posizionando come “un mare di stabilità in un mondo turbolento”. In altre parole, mentre l’America di Trump spaventa con dazi e guerre commerciali, Pechino si presenta come un partner affidabile e prevedibile.

Le incognite di un’apertura controllata

Nonostante le promesse di apertura, il sistema regolatorio cinese è ancora lontano dagli standard globali. La protezione della proprietà intellettuale e le leggi antitrust restano temi critici per le aziende straniere. Pechino ha tutto l’interesse a mantenere un certo controllo sulle imprese che operano sul suo territorio, garantendosi sempre una posizione dominante.

Denis Depoux, global managing director di Roland Berger, ha paragonato l’attuale situazione a quella del 2017, quando Xi Jinping si presentò al World Economic Forum di Davos come il difensore della globalizzazione. Ma allora, come oggi, resta un punto aperto: questa apertura sarà davvero libera o sarà un gioco in cui le regole sono scritte da Pechino?

Il grande paradosso: chi si fida di più della Cina?

Il dibattito sulla Cina si divide in due visioni opposte. Da una parte, c’è chi vede un’opportunità irripetibile: il mercato più grande del mondo che finalmente si apre con meno restrizioni. Dall’altra, chi teme che l’entusiasmo di oggi possa trasformarsi in una trappola domani, con regolamenti sempre più stringenti e un sistema che favorisce le aziende cinesi a discapito degli investitori esteri.

Intanto, la Casa Bianca osserva con attenzione. Se Trump continuerà sulla linea dura dei dazi, la Cina potrebbe avere gioco facile nell’attrarre capitali e aziende americane in cerca di un ambiente meno ostile. E a quel punto, il rischio per gli Stati Uniti sarà quello di ritrovarsi isolati proprio nel momento in cui il mondo si riorganizza intorno a nuove dinamiche economiche.

La globalizzazione non è morta, sta solo cambiando indirizzo. E oggi, più che mai, sembra avere un passaporto cinese.

Guerra commerciale USA-Cina: chi sta bluffando?

Li Qiang ha lanciato un segnale chiaro: il business prima di tutto. L’incontro con il senatore Steve Daines e i CEO di colossi americani come FedEx, Qualcomm, Pfizer e Boeing non è stato casuale. Mentre la Casa Bianca inasprisce la retorica con nuovi dazi, Pechino gioca la carta della cooperazione economica. La Cina ha bisogno del mercato americano, ma gli USA non possono fare a meno della manifattura cinese.

Li ha parlato di “dialogo” e “cooperazione”, concetti che suonano bene nei comunicati ufficiali ma che nascondono un messaggio preciso: un’escalation della guerra commerciale danneggerebbe entrambi. Il Premier cinese ha chiarito che nessuno vince in una guerra dei dazi e che la crescita economica non passa attraverso le tariffe punitive. Un avvertimento o una dichiarazione di intenti?

Il tempismo dell’incontro è tutto fuorché casuale. Steve Daines, repubblicano vicino a Trump, è il primo politico americano a visitare Pechino da quando l’ex presidente ha annunciato nuovi dazi sui prodotti cinesi. Con un passato da dirigente in Cina negli anni ’90 e un ruolo nei negoziati commerciali durante il primo mandato di Trump, Daines conosce bene il dossier. Il fatto che abbia guidato una delegazione di top manager americani in Cina è un segnale che Wall Street non vuole una guerra economica su larga scala.

La Cina ha risposto alle nuove misure americane con tariffe di ritorsione e sanzioni contro le aziende USA. Ma Pechino sa che il vero rischio è l’isolamento tecnologico. Con gli USA sempre più decisi a bloccare l’accesso cinese ai semiconduttori avanzati e alle tecnologie strategiche, il Partito Comunista sa che deve giocare d’anticipo. Aprire le porte agli investimenti americani è un modo per mantenere il flusso di capitali e know-how, evitando che la frattura economica diventi irreparabile.

Il tema del fentanyl è l’altra variabile dello scontro. Washington accusa la Cina di essere il principale fornitore delle sostanze chimiche che alimentano la crisi degli oppioidi negli USA. Pechino, dal canto suo, rigetta le accuse e vede la questione come un pretesto per giustificare i nuovi dazi. Qui la guerra commerciale si intreccia con la geopolitica: gli Stati Uniti vogliono tenere Pechino sotto pressione su più fronti, mentre la Cina cerca di presentarsi come un partner affidabile.

Nel frattempo, Li Qiang ha parlato al China Development Forum ribadendo l’impegno all’apertura economica e alla stabilità. Un messaggio non solo agli USA, ma anche agli investitori globali preoccupati dal rallentamento della crescita cinese. La Cina si sta preparando a “shock esterni imprevisti”, segno che Pechino non si fa illusioni su un possibile inasprimento del confronto con Washington.

Il senatore Daines ha cercato di smorzare i toni, sottolineando che le aziende americane vogliono restare in Cina e continuare a investire. Ma il punto chiave è un altro: gli Stati Uniti stanno davvero cercando di sganciarsi economicamente dalla Cina, oppure tutto questo è solo un gigantesco bluff per strappare migliori condizioni nei negoziati?

Le prossime mosse saranno decisive. Se gli USA continueranno a imporre dazi e restrizioni tecnologiche, la Cina dovrà reagire con misure più aggressive. Ma se dietro le quinte le grandi aziende americane faranno pressione su Washington per mantenere i legami economici, allora il “disaccoppiamento” potrebbe rivelarsi più retorica che realtà.