Il 21 marzo 2025, Elon Musk, il miliardario e potente CEO di Tesla e SpaceX, ha fatto il suo ingresso al Pentagono per discutere di un tema che ha un peso ben diverso dalla produzione di automobili elettriche o dalle missioni spaziali. Non si trattava di un incontro su come ridurre i costi o ottimizzare la logistica, ma di un approfondimento sulla geopolitica globale, in particolare sul conflitto potenziale con la Cina. O almeno, questo era l’intento iniziale.
Secondo fonti interne, Musk avrebbe dovuto partecipare a una sessione top-secret sui piani di guerra degli Stati Uniti contro la Cina, ma, come un abile regista, il Pentagono ha cambiato il copione all’ultimo minuto. Musk si è trovato a partecipare a una riunione non classificata, in cui la Cina, insieme alla tecnologia, è stata discussa in maniera generale. Non un briefing militare segreto, ma comunque un incontro che solleva più di un interrogativo, a partire dai conflitti di interesse che Musk potrebbe affrontare.
Nel suo ruolo di consigliere del presidente Trump, Musk ha accesso a una rete complessa di interessi economici e politici. Tesla ha una produzione significativa in Cina, uno dei mercati chiave per la sua espansione globale, mentre SpaceX, l’azienda che lui stesso ha creato, è un appaltatore della difesa statunitense. La sua posizione di potere potrebbe permettergli di accedere a informazioni sensibili che avrebbero un impatto diretto sui suoi affari, ponendo così domande inevitabili sulla trasparenza dei suoi ruoli aziendali e politici.
Un imprenditore che gioca a scacchi geopolitici
Questa non è la prima volta che Musk si trova al centro di un’incrocio tra business e politica. Il suo interesse per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti non è un mistero. Musk ha recentemente criticato apertamente il programma dei caccia F-35 della Lockheed Martin, suggerendo invece l’investimento in droni. A dire il vero, la Lockheed Martin è uno dei principali concorrenti di SpaceX nel settore dei lanci spaziali, ma il punto non è solo questo: Musk ha un’influenza crescente nelle decisioni relative alla difesa, e non si limita a commentare i programmi di armamenti, ma sta anche prendendo decisioni strategiche che potrebbero rivoluzionare l’approccio degli Stati Uniti a temi cruciali come la guerra spaziale e l’intelligenza artificiale.
La sua visita al Pentagono potrebbe sembrare una semplice visita di cortesia, ma non lo è. Musk non è certo un semplice osservatore. Il suo interesse per la politica di difesa è diventato sempre più tangibile negli ultimi anni, con dichiarazioni che sfidano apertamente le politiche tradizionali. Da una parte, Musk ha espresso il suo supporto a un cambiamento radicale nelle strategie di difesa, dall’altra, è stato coinvolto in discussioni sulla riduzione delle operazioni all’interno di agenzie chiave come la National Security Agency. Tutto ciò, mentre continua a costruire un impero che si estende dalla produzione automobilistica alla tecnologia spaziale, dal settore delle energie rinnovabili a quello dell’intelligenza artificiale.
Il confine sottile tra interesse e conflitto di interesse
Non è un caso che le dichiarazioni di Musk e il suo coinvolgimento in questioni di sicurezza nazionale sollevino inevitabili dubbi. Se Tesla dipende in parte dalla Cina per la sua produzione e SpaceX collabora strettamente con il Pentagono, ci si può chiedere quale sia la sua reale posizione nella gestione di segreti sensibili. In particolare, il fatto che Musk abbia una “autorizzazione di sicurezza” ma non faccia parte della catena di comando militare, rende la sua posizione ancora più ambigua. Chi lo considera un esperto di innovazione tecnologica potrebbe non essere consapevole delle possibili conseguenze politiche di ogni sua decisione.
La visita al Pentagono ha messo in evidenza quanto sia sottile il confine tra il suo ruolo di consulente nel governo degli Stati Uniti e quello di CEO di un impero tecnologico che opera su scala globale. La sua influenza non si limita ai laboratori di ricerca o alle fabbriche: Musk è diventato un vero e proprio attore geopolitico, capace di influenzare decisioni che vanno ben oltre il semplice mercato automobilistico. La sua relazione con la Cina è altrettanto complessa. Musk ha espresso apertamente ammirazione per Pechino, ed è probabile che questa affinità possa giocare un ruolo nelle sue interazioni politiche e aziendali. Ma può un uomo d’affari che ha tanto da perdere in Cina essere davvero neutrale nei confronti di un potenziale conflitto con Pechino?
Il gioco delle parti tra politica e affari
La sua visita al Pentagono non è stata solo una questione di “business as usual”. Musk ha dimostrato che l’intersezione tra tecnologia e geopolitica è ormai il suo campo di gioco. Le sue osservazioni pubbliche sulla Cina, e in particolare sulla sua convinzione che Pechino possa svolgere un ruolo chiave nella regolamentazione globale dell’intelligenza artificiale, sono un chiaro segnale delle sue ambizioni di influenzare non solo il futuro delle sue aziende, ma anche la direzione della politica globale. Le dichiarazioni fatte da Musk riguardo alla necessità di collaborare con la Cina per regolamentare la IA, pur essendo ben accolte da Pechino, suscitano sospetti negli Stati Uniti, dove le relazioni con la Cina sono sempre più tese.
Musk è ormai un attore che non può essere ignorato: la sua presenza al Pentagono rappresenta un momento simbolico, in cui il confine tra tecnologia, politica e affari si fa sempre più labile. Il suo prossimo passo? Probabilmente continuare a muoversi con la stessa astuzia con cui ha conquistato i mercati, ma con una crescente consapevolezza di come le sue decisioni potrebbero, in futuro, determinare l’equilibrio globale. E mentre il mondo aspetta di capire dove Musk intenda portare le sue aziende, è chiaro che non si tratterà solo di innovazione tecnologica, ma anche di un profondo gioco di potere a livello mondiale.
Donald Trump ha nuovamente ribadito che sarà lui, e solo lui, a trattare direttamente con il presidente cinese Xi Jinping, escludendo qualsiasi coinvolgimento di Elon Musk nelle strategie di Washington verso Pechino. Se c’era qualche dubbio sul fatto che il miliardario più discusso del pianeta potesse accedere ai piani top secret del Pentagono, il presidente americano ha messo le cose in chiaro: Musk è un “patriota”, ma resta un uomo d’affari con interessi troppo radicati in Cina per essere considerato un interlocutore affidabile su questioni di sicurezza nazionale.
Trump ha poi smorzato le voci su un briefing segreto che Musk avrebbe dovuto ricevere sui piani di guerra contro la Cina, affermando che il New York Times ha costruito una “falsa narrativa” e negando categoricamente che il suo consigliere speciale abbia avuto accesso a informazioni riservate. Lo stesso Segretario alla Difesa, Pete Hegseth, ha parlato di un incontro “informale” e ha liquidato le speculazioni come “fake news”. Tuttavia, il fatto stesso che Musk sia stato ricevuto al Pentagono e che continui a muoversi come una figura chiave nell’amministrazione Trump solleva interrogativi su quanto sia effettivamente separato il suo ruolo di innovatore visionario da quello di potenziale mediatore geopolitico.
Il dilemma di Musk: imprenditore, consigliere o agente di influenza?
Elon Musk è tutto fuorché un uomo comune. Da una parte guida Tesla, che ha un’enorme esposizione al mercato cinese, dall’altra è il fondatore di SpaceX, azienda che lavora a stretto contatto con il Pentagono su progetti strategici come i satelliti Starlink e i lanci spaziali militari. Inoltre, con la sua posizione di “zar dell’efficienza governativa” nell’amministrazione Trump, Musk ha mano libera nel ridisegnare il funzionamento di diversi uffici federali, inclusi quelli della sicurezza nazionale.
In questa veste, Musk ha già preso di mira il Dipartimento dell’Educazione e l’USAID, l’agenzia che supervisiona gli aiuti internazionali americani. Ma il vero nodo è la sua posizione rispetto alla Cina: Pechino è il cuore della produzione di Tesla, e non è un caso che Musk abbia più volte espresso giudizi favorevoli al governo cinese, affermando di essere “in un certo senso pro-Cina” e suggerendo che il Dragone possa avere un ruolo nella regolamentazione globale dell’intelligenza artificiale.
Il problema, dal punto di vista di Washington, è che una figura con accesso diretto ai più alti livelli del governo americano e con profondi interessi economici in Cina rappresenta un rischio potenziale. Trump, pur riconoscendo il valore di Musk, ha dichiarato esplicitamente che non intende condividere con lui dettagli critici della strategia americana verso Pechino.
Oltre alle questioni di sicurezza, il rapporto tra Stati Uniti e Cina continua a essere segnato dalla guerra commerciale. Il 2 aprile entreranno in vigore nuove tariffe reciproche, con Washington che ha già imposto un incremento del 20% su tutte le importazioni cinesi. Pechino ha risposto con dazi dal 10 al 15% su prodotti americani chiave come carbone, gas e prodotti agricoli.
L’amministrazione Trump sta cercando di spingere Pechino a nuove concessioni, mentre il presidente ha dichiarato di voler affrontare la questione direttamente con Xi Jinping, promettendo un incontro nel “prossimo futuro”. Tuttavia, i segnali provenienti da Pechino indicano una crescente diffidenza nei confronti di Trump e della sua gestione dei rapporti bilaterali.
In questo contesto, l’idea che Musk possa essere un ponte tra le due superpotenze appare quantomeno azzardata. Il presidente ha fatto capire che non vuole correre rischi, e sebbene Musk continui a orbitare attorno ai vertici del potere americano, il suo ruolo sembra più orientato a ottimizzare la macchina governativa che a definire strategie militari.
Musk e il Pentagono: il vero obiettivo è la spesa militare?
Mentre il dibattito si concentra sulla presunta partecipazione di Musk a briefing segreti, il miliardario sta lavorando per influenzare il futuro della difesa americana in un altro modo: ridisegnando la spesa militare. Musk ha più volte criticato l’acquisto dei caccia F-35 della Lockheed Martin, sostenendo che il futuro appartiene ai droni autonomi. Non a caso, SpaceX compete direttamente con Lockheed nei lanci spaziali, e una riduzione dei fondi per i jet da combattimento potrebbe tradursi in maggiori investimenti in tecnologie satellitari e di difesa spaziale, un settore in cui Musk è leader indiscusso.
Allo stesso tempo, la sua recente visita alla National Security Agency per discutere di riduzioni del personale e riorganizzazione delle operazioni suggerisce che l’obiettivo reale di Musk non sia tanto ottenere accesso ai segreti militari, quanto piuttosto ridefinire le priorità della difesa americana in un’ottica più efficiente e, ovviamente, più favorevole ai suoi interessi industriali.
La triangolazione tra Musk, Trump e la Cina rappresenta un mix esplosivo di politica, affari e strategie militari. Se da un lato Trump si affretta a negare qualsiasi coinvolgimento di Musk nelle questioni sensibili legate alla sicurezza nazionale, dall’altro la crescente influenza del miliardario sulla macchina amministrativa americana solleva dubbi sul confine tra interessi pubblici e privati.
Che Musk sia stato o meno in procinto di ricevere un briefing top secret poco importa: il vero problema è che la sua figura sfida ogni categorizzazione tradizionale, muovendosi tra governo, industria e geopolitica con una libertà che pochi altri al mondo possono permettersi. In un momento in cui le tensioni tra Stati Uniti e Cina sono alle stelle, il ruolo di Musk potrebbe rivelarsi tanto un vantaggio quanto una vulnerabilità strategica per Washington.

Boeing si aggiudica il caccia del futuro: il F-47 di Trump è una scommessa da centinaia di miliardi
Donald Trump ha annunciato che sarà Boeing a costruire il futuro caccia dell’Air Force, un velivolo di sesta generazione progettato per dominare i cieli e penetrare le difese aeree della Cina e di qualsiasi altro avversario. Il nuovo aereo, battezzato F-47 con un sorriso dal presidente, rappresenta la nuova incarnazione del programma Next Generation Air Dominance (NGAD) e avrà un ruolo centrale nella strategia militare americana.
Il contratto iniziale vale 20 miliardi di dollari, ma si tratta solo di un assaggio: il costo totale dell’operazione si tradurrà in centinaia di miliardi nei prossimi decenni. Il caccia sarà il fulcro di una flotta di droni autonomi che rivoluzioneranno la guerra aerea, ma nonostante la sua importanza strategica, il progetto solleva interrogativi enormi sulla sua effettiva necessità e sulla sua sostenibilità economica.
L’America non ha ancora risolto i problemi del costosissimo F-35, il caccia stealth che doveva rappresentare il futuro dell’aviazione e che invece si è trasformato in un buco nero finanziario da 1,7 trilioni di dollari. Con oltre 1.100 esemplari già prodotti e molte criticità irrisolte, il Pentagono si trova ora a spingere per un nuovo progetto ancora più ambizioso.
Parallelamente, gli USA stanno portando avanti la produzione del bombardiere stealth B-21 Raider, un velivolo dotato di tecnologie all’avanguardia che avrà capacità simili al nuovo NGAD. Se il futuro della guerra sarà dominato da droni e satelliti, come sostengono molti analisti, perché investire centinaia di miliardi in un caccia con pilota?
Il vero motivo dell’accelerazione sul progetto NGAD è la crescente tensione con Pechino. Il caccia sarà pensato per operare a lungo raggio senza bisogno di frequenti rifornimenti, il che lo rende perfetto per un possibile conflitto nell’Indo-Pacifico, dove le distanze sono enormi e le basi aeree statunitensi potrebbero essere vulnerabili a un primo attacco cinese.
Tuttavia, anche con un’arma tecnologicamente superiore, la strategia militare americana potrebbe essere messa in discussione dall’evoluzione del warfare. I droni e i missili ipersonici stanno cambiando il modo in cui si combatte e il rischio è che l’NGAD possa diventare un altro colosso costosissimo ma superato prima ancora di entrare in servizio su larga scala.
La battaglia tra i colossi della difesa
L’assegnazione a Boeing è una vittoria pesante per l’azienda, che negli ultimi anni ha subito una serie di colpi durissimi, tra cui la crisi del 737 MAX e problemi di qualità nei programmi spaziali e militari. Lockheed Martin e Northrop Grumman, che erano in competizione per il contratto, dovranno ora concentrarsi su altri progetti, incluso il caccia NGAD della Marina, ancora in fase di selezione.
La decisione arriva dopo una revisione ordinata dall’amministrazione Biden, che aveva messo in pausa il programma per valutarne la reale utilità. Alla fine, gli analisti hanno concluso che l’NGAD è ancora necessario, ma la domanda resta: il Pentagono sta davvero investendo nel futuro, o sta solo alimentando la sua dipendenza da programmi miliardari che servono più all’industria della difesa che alla sicurezza nazionale?
Europa in bilico tra Washington e Pechino: diplomazia o strategia di sopravvivenza?
L’Unione Europea si prepara a una settimana cruciale di incontri diplomatici con la Cina, ma chi si aspetta un avvicinamento strategico tra Bruxelles e Pechino a seguito delle tensioni con gli Stati Uniti sotto la nuova amministrazione Trump potrebbe rimanere deluso. Secondo Maria Martin-Prat, vice direttore generale per il commercio della Commissione Europea, la narrativa di un’Europa costretta a scegliere tra Washington e Pechino è semplicistica e non tiene conto della crescente frammentazione economica globale.
Mentre il presidente spagnolo Pedro Sanchez, il commissario UE per il commercio Maros Sefcovic e il ministro degli Esteri francese Jean-Noel Barrot si preparano a visitare la Cina, la questione centrale rimane come l’Europa possa bilanciare i rapporti con Pechino senza compromettere la sua posizione con Washington. Ursula von der Leyen ha adottato un tono più conciliante nei confronti della Cina nei suoi recenti discorsi, ma secondo alcuni osservatori si tratta più di un calcolo politico che di un reale cambiamento di rotta.
Dietro questa apparente apertura, Bruxelles sta già mettendo in atto misure per limitare la dipendenza economica dalla Cina. Il piano d’azione su acciaio e metalli, il programma di trasferimento tecnologico per il settore automotive e l’accordo sull’industria pulita sono tutti segnali di una strategia volta a proteggere il mercato europeo dall’invasione di prodotti cinesi, in particolare nel contesto dell’escalation protezionistica scatenata da Trump.
Tuttavia, mentre la Commissione Europea punta a “de-rischiare” i rapporti con Pechino, gli Stati membri seguono agende proprie. Sanchez, ad esempio, sembra più interessato ad attrarre investimenti cinesi per il settore dei veicoli elettrici e delle batterie in Spagna, mentre la Francia cerca una soluzione per le pesanti tariffe cinesi sul cognac, ritorsione diretta contro le misure UE sulle auto elettriche cinesi.
Alla vigilia degli incontri, la questione centrale rimane una: l’UE può davvero mantenere una posizione autonoma tra le due superpotenze, o finirà per essere schiacciata nella guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina?

Trump e la sua guerra alla Belt and Road: l’America First sta davvero indebolendo la Cina?
Donald Trump è tornato alla Casa Bianca con un obiettivo chiaro: ribaltare l’ordine mondiale e ripristinare la supremazia americana a ogni costo. Tra i bersagli principali della sua politica c’è la Belt and Road Initiative (BRI) cinese, il mastodontico piano di investimenti infrastrutturali con cui Pechino ha cercato di ridefinire le rotte economiche globali dal 2013. Ma il tentativo di Washington di sabotare il progetto potrebbe avere effetti controintuitivi: più che affossarlo, potrebbe persino rafforzarlo.
L’ossessione di Trump per la Cina è una costante del suo approccio alla politica estera. Già durante il suo primo mandato aveva etichettato la BRI come un tentativo di espansione egemonica mascherato da sviluppo economico. Ora, tornato al potere, sta intensificando la pressione: Panama ha già annunciato il ritiro dal programma, e gli USA stanno spingendo altri Paesi a fare lo stesso. Ma la strategia di contenimento ha delle falle evidenti: mentre gli Stati Uniti si ritraggono dalle alleanze tradizionali, molti Paesi vedono nella BRI un’opportunità, non una minaccia.
Dall’Europa al Sud America, il peso della Belt and Road continua a crescere. La Cina ha firmato oltre 200 accordi di cooperazione con più di 150 Paesi e ha investito circa 1.200 miliardi di dollari nel progetto. Ferrovia Cina-Laos, Corridoio Economico Cina-Pakistan, linea ad alta velocità Giacarta-Bandung, porto di Chancay in Perù: questi sono solo alcuni dei simboli tangibili dell’espansione cinese. Trump e il suo “neo-imperialismo” possono rallentare il processo, ma non fermarlo.
Il vero rischio per la Cina non è la retorica di Trump, ma il crescente scetticismo interno e le tensioni geopolitiche nei punti caldi come il Mar Cinese Meridionale e Taiwan. La riduzione degli impegni militari e umanitari degli USA potrebbe aprire una finestra di opportunità per Pechino, ma allo stesso tempo la spinta americana a rafforzare il controllo sull’America Latina e l’Indo-Pacifico crea nuove sfide. La Belt and Road non è immune alle turbolenze del sistema globale e dovrà navigare tra resistenze locali, accuse di “trappola del debito” e la competizione con le alternative occidentali come la Partnership for Global Infrastructure and Investment del G7.
Il mondo si sta muovendo verso un’era di diplomazia transazionale, dove le alleanze sono fluide e i Paesi si orientano in base ai propri interessi immediati piuttosto che a ideologie fisse. La Cina è pronta a sfruttare questo scenario, ma Trump potrebbe costringerla a ridefinire la sua strategia. Se gli Stati Uniti insistono su un approccio brutale e unilaterale, il risultato potrebbe essere un’accelerazione della frammentazione globale, con Pechino pronta a raccogliere i pezzi. L’America First di Trump sta davvero indebolendo la Cina, o sta semplicemente accelerando il declino dell’influenza americana?