Trump e Putin si sentono al telefono e, come due vecchi amici che decidono di dividere il conto al ristorante, stabiliscono una tregua “parziale” in Ucraina, focalizzata su energia e infrastrutture. Non sulla vita umana, non sulle città ridotte in macerie, ma su gasdotti e centrali elettriche. Perché, si sa, la guerra può anche continuare, ma il flusso di denaro e risorse deve rimanere intatto.

La Casa Bianca annuncia che ulteriori dettagli verranno discussi a Jeddah, città saudita famosa non per la diplomazia, ma per il petrolio. Un caso? Ovviamente no. Nel frattempo, Kiev risponde con scetticismo, accusando Mosca di aver lanciato una nuova ondata di droni e dimostrando, se ce ne fosse ancora bisogno, che Putin non ha mai veramente considerato l’opzione della pace. Zelensky, escluso dalle conversazioni tra i due potenti, si trova in Finlandia a cercare alleati, mentre il Cremlino esulta per una tregua che permette alla Russia di riorganizzarsi senza dover rinunciare ai suoi obiettivi strategici.

Trump si compiace pubblicamente di aver avuto una “conversazione produttiva” con Putin, sottolineando che la tregua riguarda solo le infrastrutture. Un’affermazione che tradotta dal linguaggio diplomatico significa: “Abbiamo trovato un accordo conveniente per entrambi, la guerra può continuare altrove”. Il Cremlino, dal canto suo, si affretta a confermare che Putin ha subito dato ordine di fermare gli attacchi sulle infrastrutture energetiche per 30 giorni, quasi fosse un regalo di Natale anticipato.

Ma l’accordo non è solo sulla guerra. I due leader discutono anche di “enormi accordi economici” e di “cooperazione per la stabilità geopolitica”, un eufemismo per dire che stanno spartendosi sfere di influenza mentre il mondo osserva impotente. Putin, pragmatico come sempre, accetta un scambio di prigionieri con la formula 175 per 175, come se fosse una transazione commerciale.

Nel frattempo, la Cina osserva e approva ogni passo che porti a un cessate il fuoco, senza però prendere posizione. D’altronde, per Pechino, ogni rallentamento della guerra è solo un’opportunità per espandere la propria influenza economica in Russia, Europa e Medio Oriente.

E l’Europa? Totalmente irrilevante. I leader UE, sempre pronti a ribadire il loro impegno per Kiev, vengono sistematicamente esclusi dalle trattative. Trump e Putin parlano, l’Arabia Saudita ospita i negoziati, la Cina osserva. Bruxelles, invece, continua a mandare aiuti a Kiev, senza però avere alcun peso nelle decisioni finali. Un copione già visto: l’America decide, l’Europa paga.

Persino la Germania, che ha appena approvato un aumento massiccio della spesa militare per il futuro della difesa europea, si ritrova a commentare la situazione come uno spettatore di lusso. Friedrich Merz, futuro cancelliere in pectore, si affretta a dichiarare che l’accordo tra Trump e Putin “può essere un primo passo verso una pace giusta e duratura”, come se la storia non avesse già dimostrato che le promesse di Mosca valgono meno della carta su cui vengono scritte.

Trump, sempre in cerca di un’eredità politica che vada oltre i suoi scandali giudiziari, si presenta come il grande negoziatore di pace, colui che riuscirà a fermare il conflitto senza il peso della diplomazia tradizionale. Tuttavia, la sua idea di pace si basa su calcoli di convenienza e non su un vero riequilibrio geopolitico. La sua strategia è chiara: ridurre il ruolo della NATO, marginalizzare l’UE e, soprattutto, contenere la Cina usando la Russia come contrappeso.

Lo stesso Trump ammette che il riavvicinamento con Mosca potrebbe servire a separare Putin da Xi Jinping, definendo l’alleanza tra Russia e Cina un “matrimonio forzato” frutto delle cattive politiche dei suoi predecessori. Ma questa non è diplomazia, è puro realismo cinico: se Mosca diventa un partner più conveniente di Pechino, allora vale la pena trattare.

Nel frattempo, la guerra continua. Kiev combatte ancora nel Kursk, i droni russi sorvolano il cielo ucraino e le vittime aumentano. Ma l’importante è che il gas continui a fluire, le infrastrutture restino in piedi e gli equilibri economici non vengano troppo scossi. Perché, in fondo, questa non è una questione di pace, ma di affari.

L’illusione di un esercito europeo e la realtà di un sistema di comando integrato

L’idea di un esercito europeo torna ciclicamente nei dibattiti politici e strategici, spacciata come una panacea per l’autonomia militare dell’UE. La verità è che non solo un esercito europeo non è possibile, ma non sarebbe nemmeno utile. Il problema non è la qualità delle forze armate europee, che su piccola scala sono più che rispettabili, ma la loro incapacità di operare su larga scala con un’efficienza comparabile a quella di un’unica entità statale.

Un esercito nasce da uno Stato, non da una confederazione di volontà politiche divergenti. Senza una Federazione Europea, pensare a un esercito unitario è pura utopia. Quello che invece è realizzabile e necessario è un sistema di comando e controllo integrato, che consenta di coordinare le capacità esistenti senza entrare in collisione con la NATO.

Gli Stati Uniti hanno chiaramente espresso la loro aspettativa: l’Europa deve assumersi maggiori responsabilità nella propria difesa. Questo non significa creare un’entità separata o antagonista rispetto alla NATO, ma sviluppare una capacità di integrazione e pianificazione operativa che consenta di agire in autonomia quando necessario e di rafforzare l’alleanza transatlantica invece di indebolirla.

Il modello da seguire è quello di un’architettura di comando ispirata alla NATO, che permetta agli eserciti nazionali di funzionare in modo coeso, con dottrine comuni, interoperabilità reale e una pianificazione strategica centralizzata. Il concetto di “Berlin Plus”, che già prevede forme di cooperazione tra l’UE e la NATO, deve essere ampliato e reso il cardine di un nuovo approccio europeo alla difesa.

Ciò che manca oggi non sono le risorse, ma una postura strategica coerente e la capacità di colmare i gap operativi tra i vari eserciti nazionali. Serve un nucleo centrale di pianificazione e addestramento che sviluppi forze integrate, garantisca la compatibilità tra i vari assetti e metta in sinergia gli investimenti in difesa. L’obiettivo non deve essere creare una forza simbolica priva di sostanza, ma un sistema che garantisca capacità operative reali e complementari alla NATO, colmando le lacune esistenti.

La sfida non è costruire un’illusione di sovranità militare, ma una vera capacità strategica.