Giudicare gli altri è facile. Il modo in cui parlano, quello che dicono. I loro gesti, le loro scelte, le loro abitudini. Tutto può sembrare sbagliato, illogico, fuori posto. Troppo presto, troppo tardi. Vizi, errori, convinzioni fragili o superstizioni insensate. Eppure, c’è un paradosso evidente: mentre giudichiamo gli altri, siamo a nostra volta giudicati. E la gabbia nella quale li osserviamo è, in realtà, la nostra.

Luciano Floridi, filosofo della società dell’informazione, ci propone una riflessione profonda sull’alterità e sull’illusione della nostra superiorità. In un mondo sempre più connesso, ma non per questo più empatico, il nostro sguardo sugli altri è spesso distorto da pregiudizi e schemi culturali. Ma se è vero che gli altri ci appaiono prigionieri delle loro credenze e dei loro simboli, dobbiamo chiederci: non siamo forse anche noi rinchiusi nelle nostre gabbie, solo meno visibili a noi stessi?

Floridi usa la metafora della cravatta per sintetizzare questa consapevolezza. Un oggetto apparentemente insignificante, inutile, decorativo. Un pezzo di stoffa annodato al collo, un’icona della formalità senza una reale funzione pratica. Eppure, proprio questa banalità lo rende potente: la cravatta è il simbolo della nostra appartenenza culturale, il segno che anche noi siamo definiti da convenzioni, da gesti ripetuti, da un’idea che ci precede e ci modella.

Indossare una cravatta è un atto di ammissione: non esistiamo nel vuoto, ma all’interno di un contesto che ci definisce e che, allo stesso tempo, ci rende giudicabili. Come un taglio di capelli giudicato ridicolo, un gioiello visto come eccentrico, una pratica alimentare ritenuta irrazionale o un simbolo religioso percepito come obsoleto. La cravatta ci ricorda che, al di là della nostra convinzione di essere speciali, siamo tutti, agli occhi degli altri, un altro qualsiasi.

Floridi ci invita a un cambio di prospettiva. La donna che osserviamo dalla finestra di un treno in corsa, mentre aspetta il passaggio del convoglio, non è un elemento marginale della nostra esistenza. Non è la periferia della nostra storia. Noi, con la nostra cravatta, siamo il dettaglio fugace nella sua vita, una presenza effimera che scompare in un istante.

In questa consapevolezza c’è una forma di liberazione: accettare la nostra irrilevanza significa smettere di credere di essere il centro del mondo. Il riconoscimento dell’alterità è il primo passo verso una forma più autentica di comprensione. Non per annullare il giudizio, ma per temperarlo con l’umiltà di chi sa di essere a sua volta osservato e frainteso.

Floridi ci lascia con un messaggio potente: la cravatta non è solo un segno di conformità, ma un atto di resa consapevole alla nostra condizione di esseri culturali. È un memento della nostra fallibilità, della nostra inevitabile esposizione al giudizio altrui, e della necessità di accettare che siamo solo una parte dello scenario, non sempre i protagonisti della storia.

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