Il concetto di AI sovrana (o Sovereign AI) è una di quelle idee che suonano nobili sulla carta, ma che nella pratica possono diventare un cocktail esplosivo di protezionismo digitale, geopolitica dell’innovazione e burocrazia da incubo. L’idea di fondo è semplice: invece di lasciare che le aziende americane (leggi: OpenAI, Google, Microsoft) e cinesi (Tencent, Baidu, Huawei) dominino il mercato dell’intelligenza artificiale, ogni nazione dovrebbe sviluppare la propria AI “indipendente”, addestrata sui propri valori, la propria cultura e soprattutto sotto il proprio controllo. Una bella utopia, no?
Ma dove ci porterà davvero questa corsa alla sovranità digitale? In un paradiso di AI nazionali iper-localizzate che comprendono perfettamente il nostro contesto sociale e culturale, o in un inferno di intelligenze artificiali burocratizzate, inefficienti e talvolta decisamente orwelliane? Andiamo con ordine.
Partiamo dall’ovvio: l’AI sovrana è il proseguimento del concetto di sovranità digitale, che si basa sull’idea che ogni paese debba avere il pieno controllo delle proprie infrastrutture tecnologiche, evitando di dipendere da superpotenze straniere. Se la frase “Internet cinese” vi evoca immagini di firewall impenetrabili e WeChat che tutto vede e tutto sa, non siete lontani dalla realtà. L’Europa, con la sua AI Act e le sue regolamentazioni sempre più restrittive, sta cercando di costruire un modello alternativo, più democratico, ma altrettanto isolato.
Gli USA, nel frattempo, giocano a fare i poliziotti del mondo dell’AI, cercando di impedire che la tecnologia più avanzata cada nelle mani “sbagliate” (vedi Cina, Russia, Iran, e in generale chiunque non sia un loro alleato diretto). Il risultato? Una guerra fredda tecnologica, in cui ogni blocco cerca di sviluppare la propria AI, con le proprie regole e ovviamente i propri pregiudizi incorporati.
Uno degli aspetti più ironici dell’AI sovrana è che, mentre promette di rappresentare meglio i valori e le tradizioni di un popolo, finisce per amplificare i suoi pregiudizi. Un’AI “nazionale” non sarà mai davvero neutrale: rifletterà le ideologie, le censure e le paranoie del governo che la sviluppa.
Il paper CultureLLM (allegato) parla proprio di questo: le AI globali come ChatGPT e Gemini Pro tendono a essere dominate da una prospettiva occidentale, perché sono addestrate principalmente su testi in inglese e su dati prodotti in contesti anglofoni. Questo porta a un problema: quando un modello AI affronta un tema culturalmente sensibile, tende a fornire risposte “neutre”, ma questa neutralità è spesso una maschera per un bias latente.
L’idea dietro progetti come CultureLLM è quella di creare modelli che siano più sensibili alle differenze culturali, generando risposte che riflettano meglio il punto di vista di una determinata comunità. Peccato che questa nobile intenzione possa facilmente trasformarsi in un’arma a doppio taglio: se l’AI viene addestrata a riflettere la cultura locale, cosa succede quando quella cultura è apertamente discriminatoria, conservatrice o autoritaria?
Immaginiamo un’AI sovrana sviluppata in un paese con forti restrizioni sulla libertà di espressione. Chiederle un’opinione su temi politici scottanti sarebbe come parlare con il portavoce del governo: risposte ambigue, censure mascherate da “scelte etiche” e una visione del mondo rigidamente allineata con l’ideologia dominante.
L’altro grande problema dell’AI sovrana è che, a meno che non si tratti di una superpotenza tecnologica con risorse infinite, sviluppare un modello competitivo è quasi impossibile. Addestrare un’AI avanzata richiede enormi quantità di dati, potenza di calcolo e talenti altamente qualificati – tre cose che non tutti i paesi possono permettersi.
L’alternativa? Creare AI sovrane basate su tecnologie open-source, magari riadattando modelli come Llama di Meta o Mistral. Ma qui emerge un’altra stortura: il rischio che la “sovranità AI” diventi una scusa per creare sistemi inefficienti, costosi e pieni di limiti.
Immaginate la scena:
- Un’azienda italiana sviluppa un GPT-Italia su commissione del governo. Dopo anni di ritardi, il progetto viene lanciato con grande fanfara, ma il modello è goffo, lento e incapace di rispondere in modo intelligente alle domande più complesse.
- Gli utenti, delusi, continuano a usare ChatGPT, nonostante le raccomandazioni ufficiali di adottare l’AI nazionale.
- Il governo decide di imporre restrizioni all’uso di modelli stranieri per “proteggere l’industria locale”, costringendo aziende e cittadini a usare un’AI inferiore.
- I burocrati celebrano il successo dell’iniziativa, mentre gli sviluppatori in fuga twittano la loro frustrazione da un coworking a Berlino.
Chi vince davvero?
A chi conviene, quindi, l’AI sovrana? Sicuramente ai governi autoritari, che potranno modellare l’AI a loro immagine e somiglianza, filtrando contenuti scomodi e riscrivendo la realtà a proprio piacimento. Conviene anche ai colossi della difesa e della cybersicurezza, che vedranno un fiume di soldi pubblici investiti in progetti di AI nazionali.
Per il cittadino medio, invece, il vantaggio è meno chiaro. Se da un lato un’AI più attenta alle sfumature culturali potrebbe migliorare l’esperienza utente, dall’altro il rischio è di finire intrappolati in una bolla digitale fatta di censura, inefficienza e scarsa innovazione.
Quindi, sarà una cosa buona o no?
La risposta è: dipende. Se l’obiettivo dell’AI sovrana è quello di garantire maggiore diversità culturale nei modelli di intelligenza artificiale, potrebbe essere una buona idea. Ma se diventa un pretesto per il protezionismo digitale e il controllo governativo, il risultato sarà solo un mosaico di AI nazionali limitate, inefficienti e potenzialmente pericolose per la libertà di espressione.
L’AI sovrana potrebbe portarci in un futuro in cui ogni paese avrà la sua versione della verità, del linguaggio e della realtà digitale. Un mondo in cui chiedere a un chatbot “Cos’è la democrazia?” darà risposte radicalmente diverse a seconda della nazione in cui ci si trova.
In definitiva, la vera domanda non è dove ci porterà l’AI sovrana?, ma chi guiderà il timone?