La memoria umana è la colonna portante della nostra identità. È quel misto di ricordi imbarazzanti, momenti epici e dettagli irrilevanti che ci permette di dire “io sono questo.” Ma è anche un sistema ingannevole, un archivio disorganizzato e pieno di falle. Ora immaginate di prendere questa meravigliosa confusione e cercare di replicarla in un’intelligenza artificiale. Sembra una buona idea? Certo, come lanciare un boomerang in uno spazio angusto e sperare che non ritorni per colpirti.

La memoria a lungo termine (LTM) e la memoria a breve termine (STM) non sono solo concetti accademici da manuale di psicologia. Sono i due poli su cui si basa ogni processo cognitivo umano. La STM è quella lavagna temporanea su cui scriviamo le informazioni per risolvere problemi immediati: ricordare il numero di una stanza d’hotel, fare calcoli mentali, trovare un modo elegante per uscire da una conversazione noiosa. La LTM, invece, è il magazzino delle nostre esperienze, il contenitore che ci permette di ricordare la lezione di geometria del liceo (anche se ormai non ci serve più) o il nome del nostro primo amore.

Se l’intelligenza artificiale vuole emulare l’essere umano, deve necessariamente capire come funziona questa dualità. Ma c’è un problema: il cervello umano è caotico, inefficiente e splendidamente imprevedibile. Le AI, al contrario, si basano su strutture rigide e algoritmi lineari. Per loro, l’obiettivo è replicare il risultato, non il processo. Questo porta a una domanda cruciale: possiamo davvero simulare il funzionamento della memoria umana senza sacrificarne l’essenza?

Nella pratica, i sistemi di AI si affidano a database vettoriali per simulare la LTM. Questi database funzionano come un gigantesco magazzino di informazioni organizzate secondo schemi matematici. Ma il problema è che sono piatti, privi di quella complessità associativa che caratterizza il nostro cervello. Nella memoria umana, un odore può evocare un ricordo d’infanzia o un’emozione specifica; nei database vettoriali, un odore è solo un dato codificato. Questo è il divario che rende le AI poco “umane”: mancano di contesto, emozione e quella scintilla di disordine che rende tutto interessante.

Un altro grande limite è rappresentato dal processo di encoding. Nelle AI, l’encoding è il modo in cui i dati vengono trasformati in vettori comprensibili dal sistema. Ma spesso questo avviene senza considerare il contesto. Pensate alla parola “banca.” Potrebbe significare un istituto finanziario o una panchina in un parco. Gli esseri umani capiscono la differenza grazie al contesto della frase. Le AI, invece, faticano a farlo, a meno che non vengano utilizzati modelli avanzati come quelli basati sui transformer, che cercano di cogliere le sfumature. Eppure, anche questi modelli restano lontani dall’intuizione umana.

Il consolidamento delle informazioni è un’altra area in cui l’AI è ferma all’età della pietra. Nel cervello umano, i ricordi vengono riorganizzati e rafforzati nel tempo, creando connessioni più solide tra informazioni utili e sbarazzandosi di ciò che non serve. Le AI, invece, trattano ogni dato come eterno. Una volta salvato in un database, resta lì, immutabile, come un fossile digitale. Questo non solo rende i sistemi inefficaci nel rispondere a richieste dinamiche, ma li rende anche incapaci di adattarsi al cambiamento.

Eppure, non tutto è perduto. I ricercatori stanno esplorando modi per migliorare la memoria artificiale ispirandosi al cervello umano. Un’idea promettente è quella di trattare i database vettoriali come “pesi addestrabili,” permettendo loro di evolversi durante il training. Questo approccio, unito a tecniche come il Reinforcement Learning from Human Feedback (RLHF), potrebbe trasformare il modo in cui le AI memorizzano e utilizzano le informazioni. Ma c’è ancora molta strada da fare prima che un chatbot possa davvero ricordare e rispondere come farebbe un essere umano.

Alla fine, la differenza fondamentale tra noi e le macchine sta proprio nel modo in cui ricordiamo. Le AI cercano di memorizzare tutto, ma non capiscono nulla. Noi, al contrario, dimentichiamo molto, ma il poco che ricordiamo è ciò che ci definisce. Forse è questa la lezione più importante: non è tanto il fatto di avere una memoria perfetta a renderci umani, quanto il caos, le lacune e le emozioni che accompagnano i nostri ricordi. E finché le macchine non riusciranno a replicare questo, resteranno semplicemente imitazioni imperfette di qualcosa che non possono comprendere davvero.