Recentemente ho letto un bell’articolo dei MAESTRI di Wired : For Google’s Pixel Camera Team, It’s All About the Memories, che si è chiesto “Ma Real Tone è peggiorato?” Il Pixel 8A telefono da 500 dollari, 380 euro da noi, prometteva meraviglie, ma quel tanto decantato Real Tone, pensato per rappresentare meglio le tonalità della pelle specialmente per le persone di colore sembrava zoppicare.
Dietro questo tentativo di redenzione fotografica c’è Florian Koenigsberger, leader dell’equità delle immagini di Google, ci piace tanto a Rivista.AI mostrarne il volto… Un titolo pomposo, quelli barvi lo chiamano job title, per dire che guida il team che, da tre anni, cerca di perfezionare Real Tone, introdotto col Pixel 6.
Prima di arrivare ai Pixel, però, facciamo un salto nel passato. Lo sapevate che le vecchie pellicole Kodak erano calibrate per esporre correttamente le persone bianche? Fondata da George Eastman, Henry A. Strong nel 1888.
Eh sì, il leggendario Shirley Card mostrava una modella bianca e basta. Da lì in poi, per decenni, tutto il mondo fotografico è andato avanti così, lasciando le persone di colore a combattere con foto che li facevano sembrare ombre. E no, il passaggio al digitale non ha risolto tutto: lo stesso bias si è riversato nei sensori delle fotocamere e persino nei webcam tracker che non riconoscevano i volti neri.
Koenigsberger, metà tedesco bianco e metà giamaicano nero, conosce bene questa frustrazione. “Fare una foto di famiglia decente era una sfida,” dice. E così ha deciso di usare il suo tempo a Google per ribaltare il problema, con l’ambizione quasi romantica di “rendere la fotografia giusta per tutti.”
Pixel 9 e il Trucco del Retroilluminato
Ora arriviamo al Pixel 9, la nuova promessa di Google nel mondo dei ricordi artificiali. L’articolo riporta:
“Durante una passeggiata per Brooklyn con Koenigsberger e il suo team, ho visto dal vivo le differenze tra il Pixel 8 Pro e il Pixel 9 Pro. In particolare, il problema del retroilluminato – sapete, quelle foto in cui il soggetto appare come un’ombra contro una finestra luminosa. Sul Pixel 9 Pro, il Real Tone sembra avere una laurea in gestione dell’esposizione: meno sbalzi, volti più visibili, e colori che non sembrano presi da un cartone animato”.
Ci sono anche novità come la segmentazione del bilanciamento del bianco, che evita che i colori di sfondo (tipo un cielo azzurro) influiscano sul tono della pelle. Finalmente, il Pixel 9 utilizza una scala di tonalità della pelle più ampia e precisa, il Monk Skin Tone Scale, per calibrare ogni sfumatura con una delicatezza quasi poetica.
Ma non illudiamoci che Google si stia fermando a questo. L’AI sta riscrivendo le regole della fotografia. La funzione “Add Me” permette di scattare una foto a qualcuno davanti alla Torre Eiffel e poi aggiungere magicamente te stesso accanto a loro, senza l’aiuto di un estraneo. Poi c’è “Reimagine”, che trasforma una giornata grigia a Parigi in un tramonto da sogno, tutto con un prompt testuale.
A qualcuno potrebbe sembrare un’eresia, ma Isaac Reynolds, il responsabile della fotocamera Pixel, dice che è tutto normale. “Non è la foto che importa, ma il ricordo,” afferma. Tradotto: se i tuoi ricordi sono una bugia, tanto vale che lo siano anche le tue foto.
Verso il Futuro (Distopico?)
L’esperto di fotografia Ramesh Raskar ha previsto un futuro in cui la macchina fotografica non esisterà più. Basta un pulsante: registrerà il luogo e l’ora, aggiungendo dettagli come il meteo e il soggetto della foto, per poi ricreare tutto digitalmente. Un futuro spaventoso per i puristi, ma probabilmente inevitabile.
E qui arriviamo al punto: i Pixel e l’AI stanno trasformando il modo in cui ricordiamo. Non importa quanto siano false o autentiche le immagini, l’obiettivo è farci sentire meglio. E se questo significa sostituire la realtà con un pizzico di magia digitale, Google è pronto a premere quel pulsante per noi.
Non sono un esperto e nemmeno mi posso definire un fotografo, quindo ho chiesto l’opimione di un maestro, per voi sarà G.F che mi ha risposto:
La vexata quaestio, mi rispone, ebbene sì G.F. è piu’ erudito di me, (d’altronde lui un lavoro vero c’è l’ha) la “questione tormenta” delle fotocamere degli smartphone è una corsa continua al miglioramento, un’eterna competizione al pixel più performante. E Google, con i suoi dispositivi Pixel, ha lanciato l’ennesimo guanto di sfida. Non si tratta solo di hardware, ma di un profondo sfruttamento delle potenzialità dell’intelligenza artificiale (AI). In un mondo dove l’innovazione corre, noi ci troviamo a fare i conti con una sorta di “provincialismo tecnologico”, osservando cambiamenti che talvolta ci sembrano lontani e con accesso parziale alle loro possibilità più avanzate.
L’introduzione di funzionalità come la possibilità di creare ritratti di coppia con l’intervento dell’AI, senza l’aiuto di un terzo, sembra quasi fantascienza. Ma ci invita a riflettere su un cambiamento culturale profondo. Le macchine fotografiche, una volta oggetti imprescindibili per ogni professionista o appassionato, stanno perdendo il loro status di necessità, soppiantate da dispositivi che si portano in tasca. Tuttavia, nonostante i progressi, l’alta definizione promessa dagli smartphone è ancora un’illusione, un’interpolazione più che una vera rivoluzione.
Questo tema ci porta a riflettere sul significato della fotografia nella nostra epoca. Grandi maestri come Ansel Adams e Henri Cartier-Bresson hanno creato capolavori con strumenti limitati rispetto agli standard attuali, ma con una visione che andava oltre la tecnica. Adams vedeva la fotografia come un atto di meditazione, dove ogni scatto era il risultato di un’attenta riflessione sulla luce e sulla composizione. Cartier-Bresson, dal canto suo, parlava del “momento decisivo”, quella frazione di secondo in cui l’immagine catturata racchiude un’intera storia.
Ecco il paradosso: oggi abbiamo strumenti che permettono a chiunque di scattare immagini tecnicamente perfette, ma l’anima dell’immagine, la sua capacità di raccontare qualcosa di universale, rischia di perdersi. Non è una critica alla tecnologia, ma un invito a usarla come mezzo e non come fine.
Personalmente, ho provato più volte a passare ai telefoni Android, inclusi i dispositivi Pixel, ma alla fine sono tornato all’iPhone e non sto facendo pubblicità purtroppo…. Non per una questione di superiorità tecnica, ma per un equilibrio personale. Per me, il telefono deve essere uno strumento che fa “ciò che basta”. Quando serve qualcosa di più, utilizzo strumenti dedicati. Questa scelta mi ha aiutato a superare l’ansia della novità, quella pressione costante di dover avere sempre il dispositivo più avanzato.
Forse è una posizione che richiama l’approccio di grandi fotografi come Sebastião Salgado, che, pur adottando tecnologie moderne, non ha mai tradito la sua visione umanistica e la profondità dei suoi progetti. La tecnologia, per lui, era un mezzo per raccontare storie, non il centro del suo lavoro.
Tornando a Google e alla sua AI, sono curioso di vedere i risultati promessi. L’idea di una foto di coppia senza l’intervento di un terzo è affascinante, ma solleva interrogativi sul nostro rapporto con l’immagine e con l’idea di autenticità. La tecnologia AI ci consente di rimuovere imperfezioni, di aggiungere dettagli e persino di riscrivere la realtà. Ma a che costo? Le immagini generate con l’AI rischiano di essere perfette solo in superficie, prive di quell’imperfezione che spesso è ciò che rende uno scatto veramente memorabile.
Per non essere troppo prolisso come mio solito ,il vero nodo non è se il Pixel o l’iPhone sia migliore. La vera sfida è capire come utilizzare questi strumenti per raccontare storie che vadano oltre la pura estetica, per creare immagini che abbiano un’anima. Perché, in fondo, ciò che rende una fotografia straordinaria non è la nitidezza o il numero di pixel, ma la capacità di toccare chi la osserva. E questo, né l’AI né il progresso tecnologico, possono insegnarcelo.