A dicembre, Sam Altman, il visionario dietro OpenAI o se vogliamo, il nuovo oracolo di Silicon Valley ha deciso di aprire il portafoglio e regalare un milione di dollari al fondo inaugurale di Donald J. Trump. Uno potrebbe pensare: “Ecco un uomo che sa come posizionarsi nel mondo, anche quando il mondo sembra un po’ sottosopra.” È una mossa che si inserisce perfettamente nel manuale non scritto del settore tecnologico: quando sei già incredibilmente ricco e potente, perché non investire qualche spicciolo per assicurarti che anche il potere politico ti sorrida?

Adesso, Altman e la sua squadra di OpenAI una startup che ha cambiato il gioco con ChatGPT e dato a tutti una scusa per parlare con un computer – stanno facendo un ulteriore passo avanti. Stanno cercando di spiegare al mondo, e alla prossima amministrazione, come l’intelligenza artificiale sia la chiave per il futuro. Ovviamente, un futuro dove loro sono i protagonisti.

In un documento che chiamano pomposamente “progetto economico per l’intelligenza artificiale in America” –perché dire semplicemente “Come rimanere rilevanti e potenti nel prossimo decennio” non suonava abbastanza elegante – propongono politiche per stimolare la crescita tecnologica, minimizzare i rischi (quelli per loro, si intende) e mantenere la Cina lontana dal podio.

ChatGPT, dicono, ha il potenziale di trasformare il mondo. Certo, magari oggi lo usi per scoprire una ricetta di pancake o farti scrivere una lettera di scuse al capo, ma un domani potrebbe risolvere il cancro, migliorare l’educazione o inventare una nuova forma di yoga. Il problema, però, è che tutto questo ha un costo – letteralmente. Parliamo di data center così grandi che potrebbero essere scambiati per nuove città e di bollette energetiche che farebbero impallidire un oligarca russo.

E allora ecco il piano: aprire le porte agli investitori del Medio Oriente. Emirati Arabi e Arabia Saudita, per essere precisi. Altman sostiene che, se gli Stati Uniti non accolgono i loro petrodollari a braccia aperte, questi paesi porteranno i loro soldi in Cina. E francamente, chi vuole che Pechino costruisca robot più intelligenti dei nostri?

Chris Lehane, il portavoce di OpenAI, lo dice in modo poetico, quasi shakespeariano: “Quei paesi costruiranno sui binari degli Stati Uniti o su quelli del Partito Comunista Cinese?” Un’arte di trasformare una questione finanziaria in una lotta epica tra il bene e il male.

Altman, nel frattempo, sta facendo pressione perché il governo federale prenda il comando delle normative sull’intelligenza artificiale. La California, con i suoi tentativi di regolare il settore, sembra aver imparato la lezione: non si può far arrabbiare un miliardario senza conseguenze. Lehane è chiaro: frammentare le leggi tra stati diversi sarebbe un disastro. “Non possiamo competere con la Cina se metà del paese sta cercando di capire se l’IA è legale nel proprio cortile.”

Il 30 gennaio Altman sfilerà a Washington per mostrare il meglio di OpenAI. Sarà come una prima teatrale, con legislatori, economisti e burocrati in prima fila. L’idea è semplice: impressionare tutti con la potenza dell’IA e dimostrare che vale la pena continuare a investire in un futuro dove l’America è ancora al comando, e Altman è l’uomo al centro della scena.

In fondo, è la stessa vecchia storia: soldi, potere e una buona dose di retorica. Ma questa volta, con un tocco di intelligenza artificiale. E chi potrebbe resistere?