Huawei, il gigante tecnologico cinese, è un po’ come quella persona che si presenta sempre ben vestita a una festa e tutti sospettano che abbia rubato il vestito. È al centro di un’accesa discussione geopolitica ed economica, principalmente perché – dicono gli americani – il suo guardaroba tecnologico potrebbe includere microfoni nascosti. Il governo degli Stati Uniti, con la sottigliezza di un martello pneumatico, ha vietato nel 2022 la vendita di nuovi prodotti Huawei sul territorio americano, sostenendo che il colosso cinese potrebbe trasformare ogni router in una spia sotto copertura.
Huawei, dal canto suo, nega tutto con l’innocenza di un bambino beccato con le mani nella marmellata, proclamando di non essere affatto un’estensione del governo cinese. Certo, è solo una coincidenza che il modello gestionale dell’azienda ricordi più il Politburo che una normale riunione aziendale in Silicon Valley. Ma dettagli, no?
Eva Dou, giornalista con più fegato di me (e un contratto migliore), ha esplorato questa saga nel suo libro House of Huawei. Tra un capitolo e l’altro, racconta la storia del fondatore Ren Zhengfei, un uomo che è partito da un appartamento di Shenzhen negli anni ’80 per costruire un impero tecnologico talmente imponente che include una replica del Palazzo di Versailles. Non si sa se l’abbiano costruito per ispirarsi alla grandeur francese o per allenarsi alla prossima Rivoluzione Industriale, versione cinese.
Dou mantiene un approccio imparziale, ma il suo libro lascia intendere che gli americani potrebbero non essere del tutto paranoici. Dopotutto, non capita tutti i giorni di vedere un consiglio di amministrazione che somiglia a una seduta del Comitato Centrale. Però, è anche vero che l’azienda insiste sulla sua indipendenza. Insomma, per Huawei, le accuse di spionaggio sono come quelle fastidiose zanzare estive: sgradevoli, ma non abbastanza per far smettere di ballare.
Huawei è più di un’azienda. È un simbolo della Cina contemporanea, una metafora vivente del tipo: “Guarda cosa posso fare con anni di lavoro, un miliardo di persone e un approccio disinvolto al copyright.” La sua ascesa al potere tecnologico è tanto impressionante quanto inquietante per l’Occidente. Qualcuno la vede come una celebrazione del genio cinese, altri come un episodio di Black Mirror in divenire.
Il libro di Dou non dà risposte definitive, ma dipinge un quadro dettagliato di una realtà complessa. È come guardare un film di Ingmar Bergman: sai che qualcosa di profondo sta succedendo, ma non capisci esattamente cosa. Huawei rappresenta per alcuni il futuro della tecnologia e per altri un sinistro avvertimento su cosa accade quando il governo e il business diventano troppo amici.
In fondo, il dibattito su Huawei è molto più grande dell’azienda stessa: è un riflesso della rivalità tra modelli economici, culturali e persino filosofici. Ma chi vincerà questa partita? Difficile dirlo. Per ora, noi possiamo solo fare ciò che facciamo meglio: continuare a scorrere i nostri feed su uno smartphone cinese e sperare che non stia mandando i nostri selfie a Pechino.