Le recenti scomparse di Sumner Redstone, leggendario magnate di ViacomCBS, e di John Malone, il visionario architetto di Liberty Media, evocano l’epilogo di un dramma epico. Due colossi che hanno plasmato l’industria dell’intrattenimento, un tempo padroni incontrastati dell’etere, ora osservano dall’ombra il trionfo dello streaming e l’inarrestabile frammentazione del pubblico. È stato un declino scritto nel codice della modernità, sostengono gli analisti, come se la metamorfosi digitale fosse un evento inevitabile, una rivoluzione darwiniana che ha riscritto le regole della sopravvivenza mediatica.
La frammentazione del settore dei media e dell’intrattenimento rappresenta uno dei cambiamenti più profondi e irreversibili dell’era digitale. Questo fenomeno è stato accelerato dalla diffusione di piattaforme di streaming come Netflix, Amazon Prime Video e Disney+, che hanno sfidato il dominio tradizionale delle emittenti televisive e dei network via cavo. Il modello centralizzato e lineare della televisione tradizionale, basato su una programmazione fissa e su pacchetti di canali, è stato progressivamente eroso da un’offerta on-demand personalizzabile, frammentando l’audience in nicchie sempre più specifiche.
L’avvento dello streaming ha introdotto una democratizzazione dell’accesso ai contenuti, permettendo ai consumatori di selezionare programmi e film in base ai propri gusti, senza vincoli di orario o palinsesto. Questa libertà di scelta ha portato alla proliferazione di servizi di nicchia e di piattaforme verticali, specializzate in generi specifici come documentari, animazione giapponese o contenuti indipendenti, contribuendo ulteriormente alla disgregazione del pubblico di massa in comunità più ristrette e fidelizzate.
Parallelamente, la frammentazione si è estesa anche alle modalità di consumo. La fruizione dei contenuti si è spostata dai televisori tradizionali verso dispositivi mobili, tablet e computer, creando un ecosistema multischermo in cui la continuità dell’esperienza visiva è garantita da algoritmi di raccomandazione e tecnologie di sincronizzazione. Questo ha reso obsoleto il concetto di audience unificata, sostituendolo con una serie di bolle di visibilità dove i contenuti competono per catturare l’attenzione in un panorama sempre più saturo.
Anche la pubblicità, pilastro economico della televisione lineare, è stata ridefinita. Gli inserzionisti stanno abbandonando i tradizionali spot televisivi per investire nel marketing digitale e nel programmatic advertising, sfruttando i dati raccolti dalle piattaforme per creare campagne iper-targettizzate. Questa migrazione ha reso più difficile per le emittenti tradizionali mantenere i livelli di redditività che le avevano rese dominanti.
E poi arriva Elon Musk, sempre pronto a spargere un po’ di sale sulle ferite. Con il suo commento sferzante sui media tradizionali che “sono diventati qualcosa che eravamo soliti usare,” Musk dipinge un quadro apocalittico in cui i giornali ingialliscono sugli scaffali e i canali via cavo trasmettono in loop le repliche di programmi dimenticati. Ma forse Musk dimentica che il cambiamento è solo superficiale. Le persone continuano a cercare informazioni e intrattenimento, semplicemente hanno cambiato canale, letteralmente.
Prendiamo il caso del New York Times. Nawfal, l’utente X osannato da Musk, lo cita come esempio di declino, con la circolazione cartacea scesa del 13%. Peccato che dimentichi quei 11 milioni di abbonati digitali che probabilmente stanno leggendo il giornale su uno schermo mentre sorseggiano il caffè biologico. È come lamentarsi della scomparsa delle carrozze trainate da cavalli senza notare il traffico congestionato di auto elettriche.
E poi c’è il cord-cutting, la grande fuga dai cavi. Sì, i cavi vengono tagliati, ma non certo per abbandonare le serie TV o lo sport. Gli spettatori stanno solo spostando il telecomando su piattaforme come Netflix, Apple e Amazon, aziende che, ironia della sorte, sono gestite da molti transfughi dei vecchi media. E ricordiamoci che quelle stesse compagnie via cavo, mentre vedono crollare i loro abbonamenti TV, sono ancora lì a vendere la connessione Internet che alimenta lo streaming. È un po’ come vendere il veleno e l’antidoto nello stesso flacone.
I media tradizionali non sono morti; hanno semplicemente cambiato vestito. I grandi marchi come il New York Times non solo sopravvivono, ma prosperano nel digitale. Nel frattempo, nuove testate come Semafor e Puck si moltiplicano, fondate da veterani della stampa. Anche TikTok e YouTube, spesso citati come le tombe del giornalismo, sono pieni di contenuti prodotti da quei vecchi media che dovrebbero essere in via di estinzione. È come guardare un camaleonte che si adatta perfettamente al suo nuovo ambiente.
Perfino lo streaming sta cominciando a somigliare alla TV tradizionale. Netflix, che una volta si vantava di aver ucciso la pubblicità, ora trasmette spot e persino partite della NFL. È come se il futuro avesse fatto un giro completo tornando al passato, solo con meno antenne e più algoritmi.
Certo, i social media rappresentano una minaccia seria al giornalismo tradizionale. Piattaforme come X e YouTube hanno cambiato il modo in cui consumiamo notizie e intrattenimento, riducendo l’attenzione e aumentando la velocità. Ma alla fine, i media tradizionali sono ancora qui, nascosti sotto nuovi loghi e app eleganti. E chi pensa che siano morti dovrebbe forse controllare se stanno solo facendo un pisolino digitale.
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