Immaginate Reid Hoffman, miliardario, filantropo, fondatore di Linkedin e una sorta di Buddha della Silicon Valley, seduto su una poltrona di pelle, con il suo telefono in mano e una mappa della Nuova Zelanda aperta davanti. È l’immagine di un uomo che riflette sul futuro… e anche su quanto sia difficile decifrare quei maledetti confini tra North e South Island.
Secondo il New York Times, Hoffman, noto per il suo sostegno a Kamala Harris e per la sua allergia a Donald Trump, sta seriamente valutando di lasciare gli Stati Uniti. Perché? Beh, sembra che l’idea di Trump alla Casa Bianca lo faccia sentire meno un uomo d’affari e più una comparsa in Il Padrino Parte II. Trump ha promesso vendetta contro i suoi nemici, e Hoffman sospetta di essere nella lista. Non proprio il tipo di cosa che uno si aspetta dopo aver finanziato una startup di social network, vero?
Hoffman non sarebbe il primo. In questi ultimi anni, molti miliardari tech, specialmente i repubblicani, hanno preso il loro bel po’ di dollari e si sono trasferiti in posti come il Texas o la Florida. “Paradisi fiscali,” dicono. “Clima politico più sereno,” aggiungono. “Pizza discutibile,” penso io.
Ma Hoffman non è un Thiel qualunque. Non sta cercando di sfuggire a tasse o normative; sta cercando di evitare che Trump si presenti alla sua porta con una citazione legale, o peggio, una copia autografata di L’arte della trattativa. Perciò, si parla di Nuova Zelanda. Un posto tranquillo, dicono, lontano dalle faide politiche americane. Ma avete mai provato a vivere in Nuova Zelanda con il jet lag? È come passare sei mesi in un continuo lunedì mattina.
La vita del Jet Set (o del Jet Lag)
Hoffman, come molti magnati tecnologici, non ha una sola casa. Ha un portfolio immobiliare che probabilmente include residenze in luoghi dove il caffè costa più di una Tesla usata. Pensate che se decidesse di trasferirsi, smetterebbe di lavorare? Certo che no! La bellezza del nostro mondo post-pandemia è che puoi dirigere un impero tecnologico in mutande, purché la videocamera di Zoom rimanga spenta.
Ma lasciatemi dire una cosa: anche con tutte le connessioni del mondo, c’è un limite a quanto lontano puoi scappare. Hoffman potrebbe rifugiarsi tra le pecore e i paesaggi mozzafiato della Nuova Zelanda, ma Trump sarà sempre lì, che aleggia come un tweet non richiesto alle tre del mattino.
Il dramma politico come commedia esistenziale
Negli anni del maccartismo, artisti e intellettuali fuggirono dall’America come se fossero inseguiti da un’orda di critici cinematografici. Ma oggi è diverso. È come vivere in un film di Hitchcock, solo che invece degli uccelli ti perseguitano i messaggi su Twitter.
E la Nuova Zelanda? Splendida, sì. Silenziosa. Ma non così silenziosa da bloccare il ronzio di una notifica che dice: “Donald J. Trump ha appena twittato di te.” Pensateci: Hoffman potrebbe svegliarsi nel cuore della notte, circondato da natura incontaminata, e scoprire che in qualche modo un commentatore di Fox News ha trovato il suo indirizzo email.
In fondo, tutto questo suona più come il copione di un film di Woody Allen: un uomo ricco, brillante, ma perseguitato dai suoi stessi demoni politici. Lo vedo già: Hoffman si trasferisce in Nuova Zelanda, ma dimentica che non ci sono buoni bagel, e allora torna in America. Solo che al suo arrivo trova Trump ad aspettarlo con una stretta di mano e un sorriso da copertina di Time.
E così, caro Reid, forse non c’è davvero modo di scappare. Non da Trump. E sicuramente non da un mondo che ormai è più piccolo di quanto vorremmo.