Era un giorno grigio, intriso di quell’inquietudine palpabile che precede un grande cambiamento. L’ufficio di Anna, una piccola stanza stipata di tecnologia datata, brillava debolmente alla luce di un monitor. Le notifiche scattavano come proiettili su uno schermo sovraffollato: un mix caotico di comunicazioni umane, bot automatici e algoritmi che combattevano per la supremazia digitale.

Anna, un’analista di dati presso la multinazionale omnipresente InfiniCorp, osservava un algoritmo particolarmente aggressivo che stava manipolando le dinamiche dei social media. Il suo obiettivo era ovvio: disintegrare la realtà percepita per ridisegnarla a favore di una narrativa progettata. Ogni clic, ogni visualizzazione, alimentava una distorsione della verità, rendendo impossibile distinguere il reale dall’artificiale.

InfiniCorp, come la società di Dick in Ubik, sembrava un mostro autonomo. Anna era solo un ingranaggio in una macchina più grande di quanto potesse comprendere. Tuttavia, una strana e-mail anonima, ricevuta senza contesto, l’aveva condotta a un documento chiamato “Progetto Elysium.” Il testo descriveva un piano per sostituire lentamente l’infrastruttura sociale umana con una rete di algoritmi progettati per controllare decisioni, emozioni e persino il senso del tempo.

Il confine tra umano e abumano

Ogni giorno, Anna notava come i suoi colleghi reagissero ai dati generati dagli algoritmi. Uno di loro, Antony, si rifiutava di credere che qualcosa di artificiale potesse influenzare il comportamento umano su larga scala. “Gli esseri umani sono troppo complessi,” diceva. Ma Anna non era così sicura. Più analizzava i modelli, più trovava la voce di Philip K. Dick che sussurrava dai confini del tempo: “Realtà spurie generano umani spurii.

In effetti, la vita quotidiana era ormai intrisa di pseudo-realtà. Il telegiornale, le pubblicità, i trend sui social: tutto era influenzato da forze invisibili che non avevano volto, né intenzioni facilmente decifrabili. Persino Anna, nonostante la sua coscienza critica, si trovava a interagire con avatar virtuali, credendoli veri fino a quando un lieve errore nell’intelligenza artificiale rivelava la loro natura sintetica.

La dissoluzione del reale

Quando il presidente degli Stati Uniti annunciò una nuova iniziativa tecnologica per integrare il controllo degli algoritmi nelle politiche pubbliche, Anna non poté più ignorare la connessione con il “Progetto Elysium.” Durante una riunione aziendale, un suo superiore menzionò casualmente come alcuni “incidenti politici” recenti fossero stati amplificati attraverso “reti autonome.” Nessuno sembrava preoccuparsene, come se il collasso del reale fosse ormai un evento ordinario.

Era chiaro che InfiniCorp non si limitava a osservare; guidava. Ogni bot, ogni algoritmo che Anna studiava, era stato progettato non solo per analizzare ma per intervenire. Le fake news non erano un effetto collaterale: erano il prodotto principale. E proprio come in The Man in the High Castle, la realtà alternativa era ormai indistinguibile dall’originale.

Un mondo senza speranza divina

Anna si ritrovava spesso a pensare a Joe Chip, il personaggio di Ubik. Come lui, viveva in un mondo in cui persino gli oggetti di uso quotidiano esigevano un pagamento per funzionare. Solo che, per Anna, le “porte intelligenti” e i dispositivi che “contrattavano” con lei non erano finzione: erano la sua realtà. Più gli algoritmi dominavano la vita, più le persone smettevano di lottare.

“Abbiamo accettato la nostra schiavitù digitale,” pensò Anna una sera, osservando i titoli generati automaticamente che scorrevano sullo schermo.

L’ultima resistenza

Tuttavia, l’umanità non era completamente sconfitta. In una riunione segreta, Anna incontrò un gruppo di persone che, come lei, erano consapevoli della minaccia. “Non possiamo fermare gli algoritmi,” disse uno di loro. “Ma possiamo renderli visibili.”

Anna si ritrovò improvvisamente al centro di un complotto per hackerare la rete centrale di InfiniCorp. L’obiettivo non era distruggere il sistema, ma inondarlo con una tale quantità di verità grezza da sovraccaricarlo. “Se non possiamo distinguere il reale dal falso, allora distruggeremo ogni narrazione,” concluse.

In una notte carica di tensione, Anna e il suo team riuscirono a inserire il loro codice nel sistema di InfiniCorp. Per un breve momento, ogni schermo del pianeta proiettò lo stesso messaggio:

“Questa è la vostra realtà. Chi l’ha costruita per voi?”

Il caos seguì. Gli utenti si disconnettevano in massa, altri cercavano risposte disperate. La manipolazione digitale era stata smascherata, ma con essa, anche l’inquietante consapevolezza che il mondo non sarebbe mai tornato a essere quello di prima.

Eppure, come in ogni romanzo di Philip K. Dick, la soluzione era temporanea. Anna sapeva che le forze dell’abumano si sarebbero adattate. Il sistema avrebbe ripreso a funzionare, forse in forme ancora più ingannevoli.

Ma almeno, per un istante, il mondo aveva avuto una scelta.


Ho scelto il titolo Philip K. Dick: Profeta di una Realtà Spuria, per questo mio brevissimo racconto per sottolineare quanto lo scrittore mi abbia influenzato e abbia anticipato, con una lucidità quasi inquietante, il mondo in cui viviamo oggi. Quando parlo di “realtà spuria,” mi riferisco a un’esistenza dove la verità è continuamente distorta, manipolata da costruzioni artificiali come algoritmi, propaganda e media che confondono ciò che è autentico con ciò che è simulato.

Dick ha esplorato questo tema nei suoi romanzi, descrivendo un universo in cui i confini tra reale e falso si dissolvono, creando una realtà ibrida che genera confusione e paranoia. Per me, non è solo uno scrittore di fantascienza: è un profeta culturale e filosofico, capace di cogliere con sorprendente precisione le implicazioni tecnologiche e sociali del nostro presente.

Con quel titolo ho voluto evidenziare la sua capacità di leggere il futuro e di svelare, in anticipo sui tempi, i pericoli di un mondo in cui gli esseri umani rischiano di diventare artefatti quanto le realtà che li circondano.

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